Last updated on marzo 3rd, 2020 at 09:55 am
Ne Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Jacques Lacan (1901-1981), psichiatra, psicoanalista e filosofo francese, scrive: «Sta qui l’esperienza dell’azione umana»: «[…] riconoscere la natura del desiderio che è al centro di tale esperienza, che una revisione etica è possibile, che un giudizio etico è possibile, il quale ripresenta la questione nel suo valore di Giudizio Universale – Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?».
È utile scomodare fin la psicanalisi, fin Lacan, per sviluppare una fenomenologia del desiderio, a partire dall’esperienza personale. È cioè indispensabile imparare a distinguere tra gli istinti, i capricci e i desideri puntuali per arrivare a verificare un’ipotesi importante: esiste un Desiderio, con l’iniziale maiuscola, che non sia possesso, che non sia determinato dall’uomo, ma che “ci abita”, cioè che l’uomo si trova addosso, ne sia determinato e a cui debba, in qualche modo, “rispondere”?
Viene in aiuto un altro psicoanalista, di formazione – vale la pena sottolinearlo – originariamente filosofica: Massimo Recalcati. È lui che introduce la distinzione tra «desiderio» e “capricciosità del gusto”: la differenza è che in una scelta che implica il desiderio ne va di tutta l’esistenza. La capricciosità del gusto riguarda poco più che la varietà del gelato: limone o pistacchio? Il capriccio riguarda l’opinione e ne scaturiscono, appunto, scelte opinabili: non esiste il gusto “giusto” di gelato da scegliere, ma il piacere personale di assaporare l’uno o l’altro aroma, nella cui dinamica ciascuno è autonomo, cioè “legge a se stesso”.
Se il desiderio, invece, riguarda il compimento di sé, se è qualcosa che riguarda “la vita o la morte”, come comprendere scelte che non affermano la vita, ma la morte? Può esserci un “oggetto del desiderio” che non sia “bene”?
L’uomo tende ad altro da sé
Ecco un esempio facile: il consumo di stupefacenti. Fumare le canne fa male: oltre a essere una strada verso il consumo di droghe più pesanti, è un male in sé: triplica il rischio di suicidio, per dirne una, modifica i tessuti cerebrali e aumenta la possibilità che si creino psicosi. Eppure i cannabis shop conoscono un boom di aperture, nonostante lo stop dell’ennesimo tentativo di sdoganare la vendita della marjuana a uso “ricreativo”: le sostanze stupefacenti (che pur a “basso dosaggio” contengono comunque tetraidrocannabinolo, conosciuto comunemente come THC) sono vendute a scopo di “collezionismo”. Certo, come no. Di fronte all’evidenza della nocività della marjuana, si continua a fumarla: si continua, dunque, a “desiderarla”, fino ad aggirare la legge (in modo quasi grottesco) pur di averla. Perché? Dove sta il “bene” desiderato? Pare che per farsi uno spinello non si metta in campo la “capricciosità del gusto”: non si tratta di scegliere una cosa piuttosto che un’altra, in modo del tutto opinabile.
La natura dell’uomo è costituita dalla tensione a qualcosa d’altro da sé (nessuno basta a se stesso) e continuamente la realtà sollecita alla ricerca di qualcosa che soddisfi, che compia. Ma se il contenuto del desiderio fosse irraggiungibile? Lo testimonia il fatto che ogni immagine porti scritto «più in là». Assumendo che il Desiderio con l’iniziale maiuscola esista, che esista una felicità ultima, il desiderio della quale “ci abita” tanto che non possiamo strapparcelo in alcun modo di dosso, se non esistesse la via verso la soddisfazione di tale desiderio, quale sarebbe l’ultima speranza?
Non si può evitare di desiderare, e non si può desiderare che in vista di un bene: l’errore può stare nell’intelletto che non riconosce il bene. Si può arrivare fin a pensare che intascare il denaro di un’assicurazione valga più della vita di un figlio. Oppure si può rinunciare, cedere, deporre la propria umanità, cercando di “distrarsi”: fumare una canna non è la soddisfazione di un desiderio, ma lo sconsolato riconoscimento che l’unico bene raggiungibile sia la dimenticanza del desiderio stesso. Il consapevole abbandono della volontà, dunque, che non riconosce più alcun bene da perseguire, ma solamente il sollievo, puntuale e momentaneo, in cui quel “qualcosa di cui ne va dell’intera esistenza” sia occultato, nascosto. Conta solo il qui e ora, in un istante senza speranza, senza compagnia.
Occorre davvero qualcuno che sostenga il desiderio, soprattutto dei nostri giovani: uno sguardo di positività sul reale che permetta un’apertura al futuro. Che sollevi da ogni caduta (la volontà è fragile), senza che venga meno l’ipotesi di una concretezza di bene tale da compiere l’intera portata del desiderio, permettendo di vivere l’oggi in modo diverso, dentro un orizzonte che cambia il presente. Forme locali di comunità che conservino la civiltà, la vita morale e quella intellettuale, per l’appunto.