Last updated on Febbraio 25th, 2020 at 03:19 am
Le sentenze vengono pronunciate in nome del popolo italiano. Così dovrebbe essere. Almeno così hanno voluto i nostri costituenti quando hanno stabilito che la sovranità appartiene al popolo. Ciò dovrebbe valere anche per i giudici, chiamati ad applicare le leggi che il popolo si dà attraverso i propri rappresentanti in parlamento. Da qualche tempo, però, non sembra così, almeno per quanti, in magistratura, sostengono che la giurisdizione non debba limitarsi a dicere jus (il potere, nel diritto romano, di importare i termini giuridici di una controversia, da cui iurisdictio, «giurisdizione»), ma possa e debba spingersi a crearlo, soprattutto quando si tratta dei cosiddetti «nuovi diritti» che il legislatore tarderebbe a riconoscere.
Ed è quanto sta accadendo nel campo della famiglia e dei diritti della personalità, interessato da un vero e proprio terremoto il cui epicentro ha un nome ben preciso: diritto all’autodeterminazione. Nato nell’ambito del diritto pubblico internazionale per qualificare la legittima aspirazione dei popoli a vedersi riconosciuta la propria identità, tale diritto è stato applicato alla sfera individuale per designare la pretesa del singolo, non a opporsi, giustamente, all’invadenza dei pubblici poteri, ma a ottenere la trasformazione in diritti dei propri desideri. Si tratta di un radicale capovolgimento di piani: non è più indispensabile che il desiderio sia meritevole di essere tutelato, perché oggettivamente corrispondente a giustizia, ma basta che sia sentito come indispensabile per la propria auto-affermazione, per la propria felicità.
La famiglia non è più la «[…] società naturale fondata sul matrimonio» ‒ ovviamente, naturalmente, di un uomo e di una donna ‒, come riconosciuto dall’art. 29 della Costituzione italiana, ma qualsiasi relazione in cui si manifesti, anche in modo passeggero, l’affettività. La genitorialità è un diritto assoluto che va assicurato mediante l’accesso a tutte le tecniche che ne consentano la realizzazione. E il sesso non è quello del corpo, ma quello della mente. Insomma, si è quel che si vuole. E il diritto deve assecondare. La stessa sorte non poteva dunque non toccare anche al nome.
Il diritto al nome appartiene ai diritti fondamentali della persona; esprime l’identità personale e la sua relazione con la famiglia di appartenenza. La scelta del nome appartiene ai genitori e lo Stato può intervenire solo per tutelare la dignità in presenza di nomi che appiano o siano ridicoli o vergognosi. In definitiva, il nome non ce lo si sceglie: è un po’ come la vita e il sesso. Serve a identificarci; in più, a darci un passato e a inserirci in un presente fatto di relazioni con altre persone.
Ebbene, oggi sembra non essere più cosi, almeno in base a una pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza nr. 3877 del 17 febbraio 2020). Anche il nome, infatti, è caduto sotto il fuoco dell’autodeterminazione.
Se vi è il diritto a cambiare sesso e se, una volta cambiato il sesso (anche senza che vi sia necessità di intervento chirurgico, come ha chiarito la Corte Costituzionale con una sentenza del luglio 2017), vi è il diritto a cambiare il nome in quello corrispondente al genere che si è scelto (e che peraltro può pure subire ulteriori mutamenti successivi), perché limitare la scelta solo alla desinenza di genere? I poveri giudici della Corte di Appello di Torino avevano rigettato la richiesta, liquidandola come un «[…] voluttuario desiderio di mutamento del nome». Ma il punto è proprio questo: per la Corte di Cassazione, al diritto all’identità sessuale sganciata dal corpo non può che conseguire il diritto a una identità nuova, anche nel nome. E ciò in nome del desiderio, appunto. E nonostante le leggi continuino a stabilire il contrario.
Se un tempo, pertanto, l’inviolabilità del diritto al nome era invocata rispetto al rischio che il potere, fattosi totalitario, trasformasse le persone in numeri, privandole di ogni identità per farne materia da riplasmare, oggi la prospettiva è completamente rovesciata: l’inviolabilità è l’arma di un io fattosi sovrano assoluto.
Non ci sono né campi di concentramento né filo spinato. Ci sono giudici accondiscendenti che plaudono e bandiere arcobaleno che sventolano. Sembra una festa: quella di una nuova nascita. In realtà, è un funerale. Assieme al vecchio nome, muore uno degli ultimi legami con la verità delle cose.
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