Last updated on Giugno 30th, 2021 at 04:07 am
Cattiveria. Se non entrassi nel foro interno della coscienza personale, la chiamerei così. La chiamo allora protervia. È l’arroganza con cui il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ha impegnato la propria Amministrazione a «codificare la sentenza Roe v. Wade», che nel 1973, legalizzò l’aborto, proprio il 22 gennaio, cioè nell’anniversario di quell’evento funesto che è costato (si calcola) 60 milioni di vite americane. L’averlo voluto fare in quel giorno dimostra un cinismo studiato.
«Codificare la sentenza Roe v. Wade» significa infatti strafare. Vuol dire inchiodare il “diritto” all’aborto nell’ordinamento giuridico del Paese.
Negli Stati Uniti, infatti, non c’è una legge che renda l’aborto un diritto, bensì solo l’interpretazione della Corte Suprema federale a conclusione, nel 1973, del caso Roe v. Wade che stabilì l’aborto essere una fattispecie di un presunto diritto alla privacy scovato solo allora fra le righe della Costituzione federale. Quella sentenza stabilì insomma che fra i diritti costituzionali delle donne statunitensi vi è quello di mettere fine volontariamente a una propria gravidanza entro le 24 settimane di vita della creatura che portano in grembo. Più che altro fu parere (politico) dei giudici supremi che l’aborto non sia illegale.
Quell’opinione è quindi diventata un precedente, dunque un parere vincolante e come tale ha stabilito la norma.
Nel 1992, però, la stessa Corte Suprema federale limitò di fatto l’aborto. La sentenza Roe v. Wade stabilisce infatti che entro il primo trimestre di gravidanza i governi degli Stati dell’Unione nordamericana non possano mai impedire l’aborto, che entro il secondo lo consentono ma possono imporre determinate norme sanitarie e che durante il terzo l’aborto non è mai concesso se non in casi di pericolo per la salute o per la vita della madre, mentre la sentenza Planned Parenthood v. Casey sostituisce il criterio dei tre trimestri con quello della capacità di sopravvivenza del bambino al di fuori del grembo materno. È in questo modo che alcuni Stati hanno potuto negli anni introdurre ostacoli all’aborto.
La sopravvivenza del più adatto
Ma il popolo dell’aborto non dorme mai e oggi Biden è al suo servizio.
Per cementare il precedente giuridico in legge federale le vie sono due. Quella parlamentare o quella dell’emendamento costituzionale. La seconda ipotesi, benché di per sé non impossibile, suona oggi fantascientifica. Quindi il popolo dell’aborto guidato da Biden adirà la via parlamentare dove conta sulla maggioranza nella Camera e su una parità nel Senato che sarà compito del vicepresidente Kamala Harris spostare a favore dell’aborto.
Ma il monocolore della «cultura di morte» che governa gli Stati Uniti ha le ore contate. Dopo quasi mezzo secolo, infatti, oggi al Paese si presenta forse la prima vera occasione per iniziare un percorso che in potenza può davvero, e finalmente, ribaltare la sentenza Roe v. Wade massimizzando il risultato prodotto dal trojan introdotto dalla sentenza Planned Parenthood v. Casey. Non solo eroderne quanti più pezzi possibili uno dopo l’altro, fra accelerate e stop, com’è stato meritoriamente fatto più e più volte utilizzando sagacemente gli spazi di manovra che si sono di volta in volta presentati, ma proprio cancellarla.
Ora, quel percorso inizia dal Mississippi. Il 17 maggio la Corte Suprema di quello Stato del Sud profondo ha annunciato di avere accolto il caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization che ruota attorno a una legge del 2018, nota come «Gestational Age Act» (HB 1510), la quale proibisce l’aborto dopo la 15a settimana di gravidanza in base a quanto stabilito dalla sentenza Planned Parenthood v. Casey.
Pare che non se ne parli prima dell’autunno e la sentenza è attesa non prima dell’estate 2022, ma per la prima volta la maggioranza dei giudici della Corte Suprema federale è conservatrice e antiabortista. Una Corte Suprema federale composta così, cioè («trumpista», come qualcuno a corto di parole e di idee si è affrettato a glossare), forzerà la realtà? No. Avrà la possibilità di acquisire agli atti dati di fatto inoppugnabili, e non pensierini in libertà, per poi esprimersi di conseguenza.
Il concetto chiave è appunto la possibilità di sopravvivenza del bambino fuori dall’utero materno. Di fondo l’abortismo rifiuta di accettare un’evidenza semplice: un essere umano è tale sin dall’istante del concepimento, così come una giraffa è giraffa fin da concepimento. Mai dal concepimento di una giraffa nascerà una non-giraffa. Non esiste nulla, né sul piano logico né sul piano fisico, che possa accreditare il passaggio da non-uomo a uomo dentro l’utero materno in un momento arbitrario, o da non-giraffa a giraffa, insomma da «grumo di cellule» a feto. Anche perché, se di mero «grumo di cellule» si trattasse, si tratterebbe sempre di cellule umane.
Ripetendo questo nonsense, però, l’abortismo pretende di poter eliminare l’essere vivo dentro un grembo umano prima del momento X in cui quell’essere diventerebbe (per magia?) altrettanto umano.
Parla la scienza. E a volte tace
Oggi però che il criterio discriminante è la capacità della persona umana di vivere al di fuori del grembo materno decisivo diventa stabilire quale sia il momento X della «possibilità di sopravvivenza».
A parte il fatto che è un’aggravante e non un’attenuante ammazzare, con crudele logica darwinista, chi per sopravvivere ha bisogno di aiuto, la scienza diventa qui decisiva. La scienza però progredisce (ogni secondo, ogni minuto) e quello che pensava di conoscere 48 anni fa al tempo della sentenza Roe v. Wade o 29 al tempo sentenza Planned Parenthood v. Casey non è quello che ha imparato a sapere negli anni seguenti. Non è cioè ciò che sa oggi. Il concetto di «possibilità di sopravvivenza» non è insomma oggi lo stesso di ieri o dell’altro ieri. Intendiamoci: esiste una verità oggettiva e incontrovertibile sul concetto di «possibilità di sopravvivenza», ma l’uomo la impara per gradi a seconda del progredire scientifico.
Quindi la liceità dell’aborto cambia con il tempo. In Mississippi oggi è 15 settimane. Però lo stesso abortismo dice che la «possibilità di sopravvivenza» non è legata a un’età gestazionale specifica. Varia. Lo ha detto la ginecologa filoabortista della Planned Parenthood Colleen P. McNicholas davanti a un organismo federale degli Stati Uniti. Quindi non ha alcun senso fissare un punto rigido di non ritorno in termini temporali. Dipende.
A 15 settimane di vita la persona umana che sta nel grembo della propria madre mostra un cuore che batte, ha un viso, ha ciglia, denti che iniziano a crescere, dita delle mani e dei piedi, onde cerebrali, è capace di espressioni facciali complesse e reagisce al tocco. Ci sono bambini nati dopo 21 settimane di gravidanza che sono sopravvissuti. Uno dei motivi per la legge varata nel 2018 in Mississippi fissa il termine alla 15 settimana è che la maggior parte degli aborti che vengono praticati oltre questo termine implicano tecniche che strappino braccia e gambe dal busto del piccolo ancora nel ventre materno, prima di schiacciargli il cranio. Lo spiega il ginecologo ex abortista Anthony Levatino in un video che consiglio di bypassare se il vostro stomaco non è dei più forti. Un’altra ragione è che, dopo le 15 settimane di vita del bambino nel grembo della propria mamma, i rischi per la salute e per la vita della donna crescono.
La paura fa 90
Studiando il caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization la Corte Suprema federale potrebbe scoprire molte cose importanti. Trovare che nessuno può stabilire ad libitum un termine temporale perché la scienza non ha elementi da proporre. Accertare che tutto il castello di carte che da 48 anni miete vittime legalmente non ha senso. E abolire tutto. Ribaltare finalmente la sentenza vincolante e killer del 1973.
Infatti nel sistema giuridico federale statunitense i precedenti giuridici orientano, ma, in virtù della separazione fra i poteri federali, l’assemblea legislativa (il Congresso federale) è libera di agire in modo indipendente. Grossolanamente, ma non erroneamente, si potrebbe dire che nel sistema federale statunitense il potere maggiore è quello dell’assemblea legislativa seguito, nell’ordine, dalla magistratura e quindi al potere esecutivo (la presidenza federale). Sebbene il sistema di pesi e contrappesi inibisca ogni gerarchia formale di questo tipo, di fatto questa descrizione è corretta.
In questo quadro, la dottrina dello stare decisis («rimanere su quanto deciso»), il principio generale dei sistemi di Common Law, è la chiave della logica del precedente giuridico. Il giudice della Corte Suprema federale Clarence Thomas si è però già detto favorevole a riconsiderarla nei casi in cui si renda necessario per fedeltà alla Costituzione federale. Per esempio su questioni decisive. Per esempio sull’aborto. Ed è opinione comune che i suoi colleghi Amy Coney Barrett, Samuel Alito, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch concordino. Al momento cruciale del voto nel caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, quando verrà il momento, i voti cruciali potrebbero essere quelli di Kavanaugh e del presidente John G. Roberts.
Ebbene, la paura della verità che la Corte Suprema potrebbe scoprire indagando quel caso è così grande che l’Amministrazione Biden sta marciando a tappe forzate.
Jennifer Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha annunciato che l’Amministrazione Biden trasformerà l’aborto in legge qualunque sia il verdetto della Corte Suprema federale sul caso del Mississippi. Hanno paura. Diventano cattivi.