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USA, monocolore della «cultura di morte»

Il «che fare» per i princìpi non negoziabili

Marco Respinti di Marco Respinti
09/01/2021
in Editoriali, Politica
211
Reading Time: 5 mins read
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Donald Trump
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Last updated on Gennaio 20th, 2021 at 09:42 am

Quello che è accaduto al Campidoglio di Washington il 6 gennaio andrà chiarito sino in fondo in tutti i risvolti. La tempesta di opinioni e di “secondo me”, quindi, non solo non giova, ma ostacola la comprensione dei fatti.

Un elemento decisivo di chiarezza lo ha però già portato il presidente uscente Donald J. Trump con un videomessaggio diffuso dalla Casa Bianca il 7 gennaio e rilanciato via Twitter non appena Twitter ha ripristinato l’account di Trump. Sarebbe importante venisse diffuso a destra e a manca da tutti quei media che in questi giorni riempiono pagine e schermi con scene, commenti ed “esperti” su quanto accaduto.

Il presidente uscente prende infatti nettamente le distanze dai dimostranti violenti, condanna la violenza usata al Campidoglio, invoca la giustizia per punire chi si è macchiato di reati, dice che la posizione politica non c’entra con gli assalitori del Congresso, riconosce l’esito del conteggio (avvenuto all’Epifania, dopo l’assalto) dei voti espressi il 14 dicembre dal Collegio Elettorale, e riconosce la vittoria di Joe Biden e di Kamala Harris. Non ci sono più scuse, cioè.

Al contempo non retrocede di un passo nel chiedere la riforma della macchina elettorale americana e nella volontà di opporsi politicamente al nuovo corso di Washington. Un discorso da statista, insomma, se i giornaloni e i benpensanti non m’impallineranno per avere osato adoperare questa parola.

Resta solo la Corte Suprema

Ed è infatti da statista che ora Trump deve comportarsi. Dovrà, come si è appunto impegnato a fare, assicurare una transizione di poteri morbida e lineare, evitare ogni strumentalizzazione, allontanare i facinorosi e presenziare alla cerimonia di insediamento di Biden e della Harris il 20 gennaio. Se sarà invitato, ovvio: ma se lo sarà, non dovrà lasciare che a svolgere quel compito sia soltanto il vicepresidente Mike Pence (se sarà invitato).

Trump dovrà cioè essere lì, al Campidoglio dopo che il Campidoglio è stato violato, per sanare la ferita. Dovrà incarnare fisicamente quella riconciliazione nazionale cui ha fatto appello nel messaggio videoregistrato del 7 gennaio. Dovrà sfoggiare il sorriso migliore e stringere calorosamente la mano a Biden (o dargli di gomito, sennò gli si darà del negazionista sul CoViD-19), sia augurandogli «buon lavoro» sia promettendogli serrata opposizione politica. È così che si fa tra uomini. Solo che sembra non essere intenzionato a farlo: errore. Se qualcuno di ascoltato potesse suggerirgli in fretta di ripensarci, sarà cosa ottima.

Perché dal 21 gennaio il monocolore della «cultura di morte» e di ogni altra aberrazione liberal non avrà più freni politici. Ogni ubbia legislativa che il 117° Congresso federale dovesse voler far passare, passerà. Ogni mattana della coppia di fatto Biden/Harris passerà. Ogni nomina di governo che deve passare al vaglio dal Senato passerà. Ogni nomina di giudice federale passerà.

L’unico baluardo resta la Corte Suprema federale, ma da tempo Biden e soci stanno pensando a stratagemmi che cloroformizzino la maggioranza conservatrice che ora la guida, per esempio aumentando il numero dei giudici di quell’assise augusta, ora nove, in misura tale da permettere all’attuale monocolore della «cultura di morte» di controllare anche il massimo tribunale del Paese.

Poi ci sono le lobby e i poteri forti, che non bisogna certo essere degli spostati violenti QAnon per scorgerne il gran lavoro nella politica e nella cultura. Le lobby organizzate dei cattivi esistono, e fanno, com’è logico, il proprio mestiere. Brigano, forcano, propagandano, finanziano e il risultato è l’estensione dell’aborto nel mondo, la capillarizzazione dell’ideologia gender e «Amen and Awomen» di questo passo.

Non arrendersi

Se Trump mancherà l’appuntamento con la prossima decina di giorni da qui al 20 gennaio sarà ancora più difficile arginare la marea ora in fase acuta.

Dal 21 gennaio bisognerà infatti riorganizzare l’opposizione. Dentro e fuori il Congresso, sui media e nei centri nevralgici della cultura, per le strade sudicie e nelle sale da ricevimento. Senza violenza, ma con molta determinazione. Senza assurdità, ma con molta fierezza.

Ci sono 74 milioni di elettori americani che hanno scelto Trump. Ce ne sono altri milioni che, per un motivo o per l’altro, a torto o a ragione, non lo hanno votato, eppure si riconoscono nei princìpi che il Trump da loro non amato ha difeso. C’è insomma una maggioranza di popolo che attende un futuro. E un leader, come sempre.

Nessuno, nemmeno Trump, sa oggi chi sarà quel leader domani, ma un leader serve. E siccome i leader non si improvvisano, sia o no Trump quel leader, occorre cominciare seriamente a pensare come allevarlo e come allenarlo. Nel frattempo bisogna fare quadrato sulle molte cose buone fatte dall’Amministrazione Trump quanto ai princìpi non negoziabili e su dossier più negoziabili ma non meno importanti.

La Sinistra politica e mediatica cerca ora di schiacciare 74 milioni di americani che hanno votato per Trump il 3 novembre sull’immagine di un tracotante energumeno che, a torso nudo e corna di bisonte, assale il Congresso di Washington come fosse la Bastiglia di Parigi. Non è affatto così, e i primi a saperlo sono proprio la Sinistra mediatica e politica; ed è per questo che si stanno prodigando nello sforzo erculeo che è sotto gli occhi di tutti in cotanta opera di riduzionismo. Al netto di un certo fuoco amico che ha già cominciato a far crepitare le armi anche in Italia, bisognerà battersi per rintuzzare questa scempiaggine. Grazie al videomessaggio di Trump del 7 gennaio farlo è un po’ più semplice.

Il «che fare»

Martedì 8 novembre 2022 i cittadini degli Stati Uniti voteranno per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera dei deputati. Non è una data lontana. Dall’inizio del 2022, o persino dalla fine dell’anno in corso, comincerà la campagna elettorale vera. Il monocolore della «cultura di morte» potrebbe insomma già avere i minuti contati, e i primi a saperlo sono proprio i suoi leader. Affinché quel condizionale diventi un indicativo assertivo l’opposizione conservatrice dovrà agire intelligentemente senza perdere nemmeno una occasione. Per esempio non dividendosi. C’è anche spazio e tempo per ricucire gli strappi consumatisi nelle ultime ore sotto la spinta di quella che, giustamente, nel videomessaggio del 7 gennaio, Trump definisce «emotività». Per questo stesso motivo il monocolore della «cultura di morte» sa che deve fare presto. Le condizioni a essa favorevoli potrebbero durare non molto. Lo scontro sarà per mesi durissimo. È qui che servono capi. In fretta.

Marco Respinti

Marco Respinti

Marco Respinti è stato il direttore di International Family News fino alla fine del 2022.Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan), è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal (L’Aia, Paesi Bassi). Membro del Comitato editoriale del periodico The European Conservative e del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief, è direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e, sul web, di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

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