L’American Academy of Pediatrics (AAP) sta aggiornando le proprie linee guida sulle modalità di formulazione della diagnosi per la sindrome di Down, ed è un buon cambiamento.
La Rete per la diagnosi di questa malattia (DSDN) fu lanciata negli Stati Uniti d’America in occasione della Giornata mondiale della sindrome di Down nel 2014 per contibuire al sostegno delle famiglie di bambini affetti dal morbo a fronte di diagnosi sia pre sia post-natali.
L’altro aspetto della missione della DSDN è cercare di migliorare il modo in cui la comunità medica formula appunto le diagnosi, ponendo cioè l’accento sulla necessità di veicolare informazioni accurate e aggiornate. Allo scopo, la Rete ha pure promosso linee guida riconosciute a livello nazionale statunitense, un programma di feedback medico e risorse indirizzate specificamente ai professionisti del settore medico.
Un’altra campagna della DSDN mette in risalto le lettere indirizzate dai genitori ai medici che hanno effettuato le diagnosi, solo una piccola parte delle quali si è poi davvero rivelata esatta. Una madre dichiara per esempio che i medici si erano riferiti alla propria bambina con il pronome neutro «it», mentre un’altra si è sentita dire che la figlia sarebbe stata un «vegetale».
Medici inopportuni
Perché le esperienze negative non mancano certo. Heather Bradley, membro del Consiglio di amministrazione ed ex presidente della Rete, riferisce quanto affermato durante una riunione del distretto dell’American College of Obstetricians and Gynecologists in Wisconsin.
«Uno specialista in Medicina materno-fetale del Minnesota ha detto che effettuare una diagnosi di sindrome di Down è come dare a qualcuno un “panino di merda”», scrive la Bradley su Facebook. «Quando ai genitori si comunica la notizia che il loro bambino è affetto da sindrome di Down, e le prime parole di risposta che si ricevono sono “mi dispiace così tanto” o “quando devo programmare l’interruzione?”, cosa dice il medico di quel BAMBINO? Dice sicuramente a quei genitori che il loro bambino è un “panino di merda”».
Un sondaggio rileva che solo l’11% delle donne riferisce di avere vissuto un’esperienza positiva con il proprio medico a fronte di una diagnosi del morbo, mentre un altro sondaggio rileva che il 13% dei medici ammette di avere enfatizzato di proposito gli aspetti negativi della sindrome di Down, nel tentativo di spingere i genitori ad abortire.
Non una disgrazia, ma una condizione che non esclude la felicità
Anni di lavoro duro e di advocacy stanno però cambiando le cose. Il nuovo rapporto clinico dell’AAP aggiorna le linee guida per i medici su come comunicare le diagnosi. Le famiglie debbono ricevere complimenti (e non sentirsi obbligati a scusarsi per quel bimbo), chiamare il bambino per nome e avere chi le sostenga durante il colloquio.
Ai medici viene anche richiesto di mettere da parte i pregiudizi personali, di utilizzare informazioni aggiornate e accurate, di adoperare un linguaggio incentrato sulla persona e di mettere i genitori in contatto con i gruppi di supporto e con le risorse disponibili localmente. E pure di sottolineare gli aspetti positivi della sindrome di Down, compresi la felicità che molte famiglie comunicano di essere se stesse e della vita che conducono.
In caso di diagnosi prenatali, i medici non debbono più dare per scontato che i genitori vogliano abortire, non devono certo fissare appuntamenti per interruzioni di gravidanza senza il loro permesso o addirittura costringere le madri ad abortire.
Le mamme non si sono mai arrese
«Per anni abbiamo lavorato con gli operatori sanitari per migliorare l’esperienza delle famiglie di fronte alle diagnosi» e «abbiamo condiviso le storie delle famiglie pfresenti nella Rete con i professionisti del settore medico» ai quali è stato chiesto un «approccio accurato, aggiornato e imparziale», dichiara Jenny Di Benedetto, fondatrice e direttrice del DSDN di Medical Outreach. Ovvero «abbiamo apportato un cambiamento reale e tangibile nel modo in cui verrnno fornite le diagnosi». Un successo importantissimo.
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