Ci sono le mode, e ci sono le tradizioni. Gesti arcaici, che gli uomini ripetono dalla notte dei tempi, e nuove abitudini, dettate dagli stili moderni di vita che sembrano allontanarci anni luce dai nostri antenati. Ci sono poi luoghi in cui tutto ciò si fonde, e gesti moderni ripercorrono percorsi antichi, antichissimi. Come nella pratica del babywearing (letteralmente «indossare il bambino»), una usanza testimoniata già da reperti archeologici dell’antico Egitto, diffusa in tutto il mondo, apparentemente dimenticata in Occidente e recentemente ricuperata e divulgata capillarmente grazie ad alcune grandi donne, prime tra tutte Erika Hoffman ed Esther Weber, e al passaparola tra mamme.
Una striscia di stoffa, più o meno lunga, più o meno colorata: sia che venga lavorata per diventare “supporto strutturato” sia che si tratti di una “semplice” tela orlata, la fascia per portare i bambini è diventata il simbolo di un nuovo e antichissimo stile di maternage. Esistono supporti prodotti dalle mamme con stoffa al metro Ikea, e costosissimi pezzi unici tessuti a mano ed elaborati in veri e propri atelier con materiali pregiatissimi quali la seta giapponese o la vigogna (la «fibra degli dèi») per fasce che arrivano a costare migliaia e migliaia di euro.
In mezzo c’è però un mondo di rapporti e relazioni, perché, per portare un bambino in fascia, è necessario imparare. E per imparare a fare qualcosa di nuovo, di solito, è necessario qualcuno che insegni, preferibilmente non solo attraverso un tutorial di YouTube. Per questo sono nate in tutto il mondo le “scuole del portare”, in Italia Portare i piccoli, la Scuola del portare e Babywearing Italia. Sono centri di formazione in cui mamme od operatori sanitari legati al mondo della maternità e della prima infanzia si certificano come “consulenti o peer del portare”. Alle neomamme vengono offerti incontri informativi gratuiti e corsi a pagamento, dove apprendere la teoria e le tecniche per indossare i loro bambini. E se da un certo punto di vista si tratta proprio di “imparare a fare i nodi” e a lavorare la stoffa secondo gesti precisi, lenti, ritmati, da un altro canto il babywearing ha a che fare con i legami molto più che per semplici questioni tecniche.
Tra vizi improbabili e «childcare crisis»
Anzitutto riguarda il rapporto tra la mamma e il suo bambino, a partire dalla decisione di superare il condizionamento culturale per cui un “bravo bambino” è quello che dorme tranquillo nella carrozzina mentre mamma fa altro e rispondere a quell’istinto atavico di tenere un figlio stretto a sé, rispondendo al suo bisogno di “essere contenuto”. Non è scontato desiderarlo, e non è scontato nemmeno assecondare questo desiderio riconosciuto nel proprio cuore, con intorno un mondo che grida “E se poi prende il vizio?”. Dentro il fatto di portare, poi, c’è tutto lo spazio del rapporto della madre con il proprio corpo: una cura di sé niente affatto scontata, mentre tutti gli sforzi e le attenzioni sono rivolte al bambino. Un ventre segnato dalla gravidanza e un seno appesantito dall’allattamento possono diventare un’opera d’arte, una immagine di sé che la donna desidera ricordare, fotografare, diffondere, artisticamente drappeggiati in metri di stoffa che non tirano e che non segnano “il difetto”, come la maggior parte dei capi di abbigliamento, ma che seguono docilmente le forme del corpo e lo abbracciano, esaltandolo e proteggendolo insieme.
È così significativa e intensa, come esperienza, che le “mamme che portano” tendono a riconoscersi, a mettersi insieme. A fare gruppo. Proliferano infatti i gruppi su Facebook, dove le mamme si scambiano consigli, esperienze e pure i supporti. Le fasce si vendono, si comprano, si scambiano e si mandano anche “in vacanza” (chi possiede un supporto in qualche modo “particolare” per composizione della stoffa, fattura o semplicemente design lo fa girare per alcuni mesi da una mamma all’altra, così che in tante possano provare l’esperienza di portare “proprio con quel supporto lì”). Nascono amicizie incredibili, e altrettanti dissapori e faide tra “scuole di pensiero” discordanti. Un mondo parallelo, quasi, dove i rapporti iniziano in modo virtuale, ma spesso diventano amicizie importanti, significative e durature.
Non desta stupore che, in un momento storico in cui The Times arriva a parlare di «childecare crisis», comunità di neomamme nascano intorno a “pezzi di stoffa”, e che, partendo da quelli, comunichino, si sfoghino, si aiutino e anche si divertano assieme.
In provincia di Mantova domani, sabato, e domenica è di scena una bellissima occasione per lasciare che questo mondo si mostri, si incontri, si renda visibile. Nel Secondo Salone del Babywearing e del bambino, l’unico indoor in Italia, la Fiera Millenaria di Gonzaga ospita espositori, ma soprattutto conferenze, workshop, dimostrazioni pratiche (persino la biodanza in fascia…). Da segnalare in particolare l’intervento di Giorgia Cozza, autrice di Bebè a costo zero, e di altri meravigliosi libri e romanzi, e il Workshop Double Hammock a cura di Glores Sandri, la donna che in Italia ha fatto del babywearing un’arte.
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