Last updated on Luglio 29th, 2021 at 02:22 am
Uno studente spintona e aggredisce verbalmente un suo compagno di classe che non si identifica con il proprio sesso biologico. Poco prima del fatto, nel corso di una lezione in aula, un insegnante dei due alunni aveva difeso l’unicità della famiglia composta da un uomo e da una donna. Ebbene, quell’insegnante potrebbe essere accusato di aver commesso un atto di discriminazione fondato sul genere. Fantasie distopiche? No, rischio concreto laddove dovesse essere approvato il «ddl Zan».
Conferenza “ecumenica”
L’esempio appena citato è stato formulato dal prof. Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita, durante la conferenza di ieri in Senato promossa da 70 associazioni della società civile italiana «contro gli esiti illiberali del ddl Zan». Giuristi e intellettuali di diversa estrazione culturale (liberali, conservatori, cattolici, progressisti, femministe) si sono ritrovati per discutere dei passi di questo testo che violerebbero i fondamentali diritti costituzionali.
Una legge che incide sulla cultura
Nel formulare il suo esempio il prof. Gambino, giurista e prorettore dell’Università Europea di Roma (UER), ha fatto riferimento all’introduzione da parte del «ddl Zan» nell’ordinamento giuridico italiano del concetto di identità di genere, per cui un individuo può identificarsi come maschio, femmina o persino altro non in base alla biologia bensì alla propria percezione. L’introduzione di questo concetto, ha sottolineato Gambino, «incide sulla cultura». E ciò «è sbagliato», ha aggiunto, «perché la cultura si compone di confronti, ethos, tradizioni, approfondimenti che rappresentano spazi di libertà. Non è una legge che può dare la patente di cultura ad alcune fattispecie giuridiche».
Un grimaldello nelle mani dei giudici
E una legge che si fa cultura pone dei rischi per la libertà. Per il giurista il combinato disposto «istigazione alla discriminazione» è «una bomba atomica». D’altronde, ha osservato, l’istigazione «è una fattispecie molto astratta, poco identificativa di un comportamento concreto». Dubbi che Gambino solleva anche nei confronti del concetto di discriminazione. «La discriminazione, in senso tecnico, significa definire situazioni diverse e non renderle omogenee», ovvero distinguere, che di per sé è un’azione che non può costituire un reato: i circoli sportivi per soli uomini o per sole donne sono leciti. Pertanto «queste due parole messe assieme sono un grimaldello nelle mani di chi le deve applicare». A tal proposito il prof. Filippo Vari, ordinario di Diritto Costituzionale e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino, ha evocato «l’esperienza comparatistica» portando l’esempio di Päivi Räsänen, deputata del parlamento finlandese ed ex ministro dell’Interno indagata per aver espresso in una trasmissione radiofonica la dottrina cristiana su famiglia e matrimonio.
L’art. 4? Excusatio non petita…
Eppure, sostengono i fautori del «ddl Zan», certe preoccupazioni dovrebbero essere fugate dall’art. 4 della legge, il quale rileva che «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Gambino ritiene però che questa specifica sia ridondante, in quanto la libertà di pensiero è già tutelata dall’art. 21 della Costituzione. Come ha spiegato la filosofa Marina Terragni, anche lei presente alla conferenza in Senato, l’art. 4 ha allora l’aspetto di una excusatio non petita.
La vera posta in palio del «ddl Zan»
La Terragni, filosofa e femminista storica, sta conducendo da tempo una battaglia contro quelli che ritiene essere dei rischi per le donne contenuti nel «ddl Zan». «L’architrave del “t.u. Zan” è l’identità di genere», ha affermato. Ed ha ricordato, infatti, che una legge contro l’omofobia era già in discussione in Parlamento: il ddl Scalfarotto. Ma non bastava, perché il vero obiettivo è veicolare il self-id, ciò che spiega James Kirkup su The Spectator in un articolo tradotto in italiano da lei sul Feminist Post: «la libera decisione di scegliere il proprio genere indipendentemente dal sesso di nascita e con un semplice atto amministrativo unilaterale, all’anagrafe o dal notaio». Una rivoluzione, questa, che può avere effetti a cascata, per esempio, nello sport (atleti trans che gareggiano nelle competizioni sportive), nelle carceri (detenuti trans nei penitenziari femminili), nei bagni pubblici (trans che chiedono di usare quelli riservati alle donne), nelle quote di rappresentanza politica (candidati maschi che accedono alle quote rosa definendosi donne).
La «competizione vittimaria»
C’è infine un altro aspetto, sollevato dal sociologo Luca Ricolfi. «Ha senso cercare di combattere violenza e discriminazione identificando categorie protette?», si è chiesto. «Se ci mettiamo su questa strada, produciamo nuove discriminazioni nei confronti di chi non è protetto dall’ombrello delle minoranze: maschi, eterosessuali, bianchi e magari anche atei non sono protetti», la sua riflessione. Quindi «la lista è arbitraria» e «innesca una competizione vittimaria» per cui «assistiamo al tentativo di usare l’appartenenza a una categoria per attaccarne un’altra». Più che combattere emarginazione e diffidenza, si rischia così di alimentarle.