Last updated on Ottobre 3rd, 2021 at 04:27 am
Sono diversi i libri che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Uno di essi s’intitola Le origini del genocidio nazista. Nel 1995, con il titolo The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia To The Final Solution, lo ha pubblicato per i tipi della University of North Carolina Press di Chapel Hill lo storico ebreo-statunitense Henry Friedlander (1930-2012). Più volte edito anche in italiano, il volumone viene ora riportato sugli scaffali dalla milanese Res Gestae.
Sono più di 560 pagine dense, fitte, frutto di (come spiega l’autore nella Prefazione) anni di studio, cioè di elaborazione, di rielaborazione, di stress test delle proprie tesi, di verifica, di analisi e di ricerca documentale (tutta peraltro restituita nella vasta bibliografia e nelle note che ne corredano e che ne chiudono lo svolgimento). Un’opera colossale, insomma, che è una pietra miliare e lo è stata sin dalla sua prima comparsa.
Sì, certo: è l’ennesimo libro sull’Olocausto, ma al contempo non lo è affatto. Procede infatti da un’ottica precisa, senza mai uscire dai binari. La segue, la persegue e la insegue. La imbriglia, ne doma le mattane, ne cavalca la sella, la dirige. Non è, però, un libro a tesi da dimostrare, come fanno gli ideologi. È il senso di una scoperta, che, prima intuito, viene pedinato e tallonato fino a quando non se ne ha ragione. Il senso di una scoperta (come si dirà oltre) nato e maturato nella propria carne.
Ma non è affatto il libro dell’originalità a ogni costo, che predilige una delle alternative possibili per trattare un tema ahimè noto, alla ricerca di un modo nuovo per raccontare la solita storia o, addirittura, l’inseguimento cinico dell’originalità a ogni costo.
È infatti solo e semplicemente il cuore finalmente raggiunto del problema. Per questo si tratta di un libro che va assolutamente letto, che va insegnato nelle scuole, che va elaborato, che va continuato.
L’era di Twitter lo sintetizzerebbe così: il Terzo Reich attuò una lucida politica di sterminio contro ebrei, zingari e disabili eminentemente ed essenzialmente di carattere eugenetico. Per questo tutto cominciò con l’eutanasia. La «soluzione finale» si spiega, e non solo si annuncia, con gli eccidi eugenetici dell’Operazione T4.
È per ciò che il librone si occupa per la maggior parte dell’eutanasia nazista: perché solo così si può comprendere fino in fondo, documenta Friedlander, il proprium dell’Olocausto. Farne a meno, sarebbe come concentrarsi sugli effetti, negandosi la scienza delle cause. Friedlander lo scrive rotondamente nella Prefazione: «Il programma di eutanasia è il tema che occupa la maggior parte di quest’opera per almeno due motivi: perché non ha la stessa notorietà della soluzione finale e perché ha rappresentato il modello per tutte le altre operazioni di sterminio naziste». Spiegando: «Il resto del libro cerca di mostrare il collegamento tra gli omicidi per eutanasia e la soluzione finale».
Solo Friedlander poteva scriverlo. Più volte lo storico ripete di essersi occupato poco, in questo studio, dell’Olocausto in sé, poiché argomento ampiamente sviscerato, e di avere preferito concentrarsi sulla sua scaturigine, giacché poco o punto analizzata. Ma chiunque avesse tentato di fare l’analogo sarebbe stato immediatamente tacciato di revisionismo e pure di tradimento, insomma di volere ridurre l’impatto e la portata della Shoà, di mirare a sviare in qualche modo il discorso.
È vero invece proprio il contrario e Friedlander non solo lo dice apertamente, ma lo certifica. L’ebreo Friedlander è infatti nato in Germania tra anni prima che il nazismo vi prendesse il potere e solo nel 1947 ha guadagnato gli Stati Uniti d’America. Nel mezzo c’è stata la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto e Auschwitz, in cui Friedlander fu internato, uscendone fortunatamente vivo. Nessuno può nemmeno sospettare che concentrarsi sulle ragioni eugenetiche e sulle logiche eutanasiche dello sterminio dei gruppi umani che i nazisti ritenevano inferiori e sul programma di eutanasia come ermeneutica della Shoà mal celi intenti riduzionistici. Friedlander scrive e spiega bene che il suo è l’intento esattamente opposto.
L’eutanasia tedesca non fu un accidente. Fu la messa in pratica di una visione nitida che faceva perno sul concetto di razza e di purezza razziale. L’eutanasia fu dunque il braccio armato dell’ideologia tedesca, la superiorità conclamata della Nazione di sangue, il superuomo realizzato. Era strutturale e ineliminabile al nazismo, fondamentale perché fondante.
Senza il programma eugenetico di eutanasia il Terzo Reich non si darebbe in tutto il proprio orrore, ma soprattutto in tutta la sua logica. L’eutanasia è la realizzazione della sua filosofia e la Shoà il suo bilancio. Solo partendo dall’eutanasia si comprende perché gli ebrei, perché gli zingari, perché i disabili, perché, insomma, tanto odio strutturale e tanta violenza ab ovo.
Di fronte a questi eccessi della natura umana si usa spesso il termine «follia». Niente affatto. L’eutanasia eugenetica del Terzo Reich non fu un momento di pazzia di qualche mentecatto: fu il progetto maturo di un nuovo ordine mondiale che avrebbe dovuto rigenerare l’umanità, riscrivere la storia e porle persino fine nella panacea irenistica di una società della stasi autocelebrativa in cui il male e l’imperfezione, la bruttura e l’abiezione (incarnate dai gruppi umani reietti e perciò oggetto di sterminio) sarebbero stati estirpati per sempre.
Un paradiso gnostico all’ombra della croce uncinata, in cui l’uomo gioca a fare dio crocifiggendo le vite giudicate non degne di essere vissute. Senza l’eugenetica non ci sarebbe Olocausto, senza l’eutanasia non ci sarebbe Shoà.
Non è che siccome lo dice un sopravvissuto ad Auschwitz, si debba credergli. Gli è piuttosto che a documentarlo è un ebreo sopravvissuto ad Auschwitz che ha speso una vita per capire perché avrebbe invece dovuto finire nel cassonetto traendo questo studio dalle proprie carni. La differenza è enorme, mette i brividi e circonda questo lavoro di una sacralità da accostare con delicatezza, timore e decisione: la sacralità che intride e costituisce la vita umana in quanto tale sempre, sempre degna di essere vissuta non ostante ogni Terzo Reich.
È un libro di storia, quello di Friedlander, che spinge ad andare oltre, giacché il Terzo Reich non nasce sotto il cavolo, ma risale almeno alla Rivoluzione Francese (1789-1799), alba eugenetica della modernità. Ed è pure un commento all’attualità. Perché viene spontaneo chiedersi se continuare a decidere oggi quali siano le vite non degne di essere vissute attraverso l’eutanasia non sia altro che apologia del nazismo.
Image source: Berlin, Ausstellung “Wunder des Lebens”, from Bundesarchiv, Bild 102-16748 / Georg Pahl, licensed by CC-BY-SA 3.0