Last updated on Dicembre 12th, 2021 at 04:05 am
A partire dalla primavera, in Italia, dapprima in sordina e poi in modo sempre più pressante, la questione cruciale del «suicidio assistito» e dell’eutanasia è tornata alla ribalta con rilevanza sempre maggiore nel dibattito pubblico.
Per via referendaria o per via parlamentare che fosse, quanto ancora in sospeso alla Camera e nelle coscienze ha acquisito nuova visibilità. Questo anche a causa del risalto mediatico, un poco forzato, che qualcuno vuole dare a situazioni talmente delicate da meritare cautela maggiore di quella talvolta usata, per esempio per quanto riguarda il caso di «Mario», nella Regione Marche.
Vale allora la pena di considerare quanto emerge da una ricerca effettuata lontano dal Belpaese, ma che, icasticamente e in via preventiva, riesce a rappresentare alcuni dei problemi che possono emergere, laddove entrino in gioco due visioni diametralmente opposte per affrontare il dolore, lancinante e insopportabile, di chi si trovi davanti alla vita e alla morte.
Il riferimento è a uno studio, realizzato in Canada, basato su interviste a persone vere, che hanno avuto e hanno a che fare con altre persone vere e situazioni vere, che analizza il rapporto esistente fra «suicidio assistito» ed eutanasia, da una parte, e cure palliative dall’altra, naturalmente nel caso di malattie straordinariamente gravi e invalidanti, prevalentemente in fase terminale.
Scelte e inibizioni
Vale a dire che, come indica il titolo dell’articolo da cui si trae spunto, L’eutanasia ha avuto effetti negativi sulle cure palliative in Canada.
Questo è quanto si sentono di affermare i medici e gli infermieri coinvolti nella ricerca: l’approvazione e l’implementazione in Canada della legge sul fine vita che ammette eutanasia e suicidio, indicata con l’acronimo MAiD, letteralmente «assistenza medica alla morte», a partire dal 2016 e recentemente emendata, ha reso peggiore l’applicazione dei protocolli di cure palliative.
E lo ha fatto sotto alcuni aspetti fondamentali, che «iFamNews» ha voluto analizzare anche con sguardo più attinente alla legislazione italiana, attuale e futura.
Vale la pena tenere presente, in quest’ottica, la distinzione precisa che intercorre fra eutanasia, «suicidio assistito» e sedazione palliativa, che si evince per esempio sul sito web dell’associazione VIDAS, Volontari Italiani Domiciliari per l’Assistenza ai Sofferenti. In poche e stringate parole, se le prime due pratiche prevedono un intervento attivo del medico, che sia attore o “semplice” assistente, nello spegnere la vita di una persona sofferente, la sedazione palliativa invece semplicemente interviene per mitigare o annullare il dolore in fase terminale del paziente, nulla avendo a che fare con la sua morte naturale. E non è un distinguo di poco conto.
Oltre a questioni più o meno tecniche sollevate dallo studio citato, per esempio l’incompatibilità intrinseca tra la somministrazione di farmaci per le cure palliative e idoneità alla MAiD, poiché i primi inibirebbero la lucidità di scelta consapevole che si trova alla base dell’accesso alla morte medicalmente assistita, e oltre alle questioni di coscienza invero non irrilevanti che coinvolgono il personale medico e paramedico implicato nella questione, vi sono anche altri aspetti che non si possono ignorare.
Il primo è quello della effettiva “richiesta” della cosiddetta «buona morte» da parte dei sofferenti: se è vero, come sottolinea lo studio, che la semplice possibilità di accesso all’eutanasia e/o al «suicidio assistito» li renda in qualche modo “possibili” da parte dei sofferenti, è altrettanto vero ciò che afferma e ha già affermato su queste colonne virtuali il dottor Marcello Ricciuti, medico e direttore da quindici anni dell’U.O.C Hospice e Cure palliative dell’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza. È vero che la “proposta” di morte medicalmente assistita potrebbe far nascere un’idea fino a quel momento ignorata nella mente della persona sofferente, ma pochi, pochissimi sono stati i casi in cui le persone davvero l’abbiano chiesta e desiderata.
Un colpo di spugna?
«Chi soffre desidera aiuto», afferma il dottor Ricciuti, «accompagnamento per sé e per la propria famiglia, la certezza di non essere abbandonati e di non essere di peso per esempio a un figlio, al coniuge anziano, ai parenti. Chiedono compagnia, assistenza. Chiedono sollievo al dolore e alla fatica, non chiedono un colpo di spugna. La “domanda” di morte medicalmente assistita semplicemente è quasi assente».
E anche se non tutti, pure fra chi opera nel campo delle cure palliative, concordano con il fatto che il medesimo team di sanitari non possa assolutamente occuparsi sia di cure palliative sia di assistenza medica alla morte, eppure tale doppia faccia di un medesimo ruolo risulterebbe «del tutto contradditoria già nei termini», secondo Ricciuti, «svuotando di significato tutto lo sforzo scientifico e umano».
Vi è un altro punto, toccato dallo studio canadese, che non può essere ignorato. Quello cioè dell’aspetto economico e della competizione finanziaria fra eutanasia/«suicidio assistito» e cure palliative. I denari destinati a finanziare la morte medicalmente assistita sottrarrebbero risorse alle cure palliative. O forse, sarebbe meglio dire il contrario, cioè che la cosiddetta “buona morte” dal punto di vista dei quattrini conviene.
Tanto per fare i soliti “conti della serva”, nel nostro Paese, afferma il dottor Ricciuti, «un giorno di degenza per un malato in terapia intensiva costa fra i mille e i 1500 euro. In un reparto-acuti fra i 500 e gli 800 euro. In un hospice, e cito i dati per esempio della Regione Basilicata, 280 euro al giorno, che si riducono a un terzo in caso di cure palliative domiciliari. Purtroppo, eutanasia e suicidio assistito costano meno».
La strada dovrebbe essere invece quella aperta dalle Legge 38 del marzo 2010: una risposta di assistenza e accompagnamento al dolore dei malati e alle loro famiglie, una risposta dignitosa davvero davanti alle loro esigenze.