Abe Shinzo e lo specchio “magico” della libertà religiosa

Quando il defunto ex premier giapponese si rese protagonista di un gesto incredibile nelle mani di Papa Francesco

Abe Shinzo e Papa Francesco il 6 giugno 2014

Abe Shinzo e Papa Francesco il 6 giugno 2014

L’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, assassinato l’8 luglio a Nara, si chiama Abe Shinzo. Perché i nipponici (come almeno pure i cinesi e i coreani) scrivono prima il cognome e poi il nome. Nel maggio 2019 Tokyo chiese ufficialmente ai media occidentali di osservare scrupolosamente questo protocollo tradizionale, in barba persino al Chicago Manual of Style, ma l’appello è caduto sostanzialmente nel nulla.

Il 6 giugno 2014 (per coincidenza anniversario dello sbarco in Normandia, non esattamente acqua fresca né per l’Occidente né per il Giappone) Abe fece visita a Papa Francesco in Vaticano. Al tradizionale, e altamente simbolico, scambio di doni, l’allora premier del Sol Levante donò al pontefice uno specchio. Banale. Apparentemente. Inclinato con un po’ di cura fino a intercettare un raggio di Sole, lo specchio rivelava infatti una “magia”: il volto di Cristo e una Croce in trasparenza.

Trionfo del kitsch ruffiano? Per nulla. Lo specchio era infatti una replica moderna, realizzata da un artigiano giapponese per il Papa su richiesta esplicita di Abe, di un manufatto antico e prezioso. Lo specchio che i kakure kirishitan, i cristiani “nascosti” del Giappone, usavano per pregare clandestinamente durante una delle persecuzioni anticattoliche più crudeli che la storia abbia mai conosciuto.

Approdato in Giappone il 15 agosto 1549, grazie a san Francesco Saverio (1506-1552), il cristianesimo trovò un Paese rigidamente castale, privo di una vera autorità centrale, dilaniato da lotte intestine e di fatto guidato dallo shōgun, il comandante dell’esercito imperiale. La nuova fede si diffuse rapidamente e a cavallo dei secoli XVI e XVII contava circa 300mila anime. Il suo cuore era la città di Nagasaki.

I martiri di Nagasaki nel 1597

La paura della concorrenza che avevano certi shintoisti e certi buddhisti, più il timore dell’intelligenza con le potenze straniere nutrito con autentica fobia complottista dal potere politico, trasformarono presto il favore iniziale in ostilità aperta. Il 24 luglio 1587 Toyotomi Hideyoshi (1537-1598), considerato il secondo “Grande unificatore” del Giappone, mise al bando i missionari europei e il 5 febbraio 1597 passò a vie di fatto, crocifiggendo 26 kirishitan (sei francescani, tre gesuiti giapponesi e 17 terziari francescani nipponici). Alla morte del tiranno la persecuzione si attenuò un poco, ma presto riprese nuovo vigore con lo shōgun Tokugawa Ieyasu(1543-1616). Nel 1614 venne proibita ogni professione pubblica della fede cattolica, i missionari furono nuovamente espulsi e i roghi di quelli che rimasero, inchiodati a croci innalzate affinché tutti vedessero, illuminarono le notti di Nagasaki.

I cristiani “nascosti” vennero allora concentrandosi nella penisola di Shimabara, 70 chilometri a sud di Nagasaki. Lì, nel 1577, l’intera popolazione si era convertita, compreso il daimyō, ossia il signore locale. Il giorno della Solennità dell’Ascensione scoppiò la rivolta contro il potere centrale, guidata dai samurai cattolici. Lo scontro fu durissimo, epico; l’esito una carneficina. I corpi dei rivoltosi furono martoriati e dilaniati, lo shōgun perse 70mila samurai. Nemmeno il leggendario Miyamoto Musashi (1584-1645), il più famoso samurai di sempre, poté nulla contro le truppe del capo 16enne della “crociata”, Masuda Shirō Tokisada (1621-1638), detto Amakusa Shirō. Ne ebbero ragione solamente la fame e gli stenti.

Dopo la rivolta di Shimabara, lo shōgun dichiarò il Sakoku, sigillando ermeticamente il Giappone a ogni straniero. Ci vollero le cannoniere statunitensi per riaprirlo, due secoli e mezzo dopo.

Il beato Dom Justo Takayama Ukon

Appartiene sempre a questa epoca l’epopea del grande Takayama Ukon (1552?-1615), nobile guerriero figlio di nobile guerriero, samurai cristiano con il nome di Justo, figlio di samurai cristiano con il nome di Dario. Divenuti daimyō del castello di Takatuski, nella prefettura di Osaka, governarono da buoni kirishitan, ma la persecuzione li colpì duramente. L’8 novembre 1614, dopo il decreto di espulsione dei missionari cristiani dal Giappone, il samurai di Cristo lasciò il Paese con 300 compagni della cattolicissima Nagasaki. Il 21 dicembre giunsero a Manila, nelle Filippine, accolti trionfalmente dai gesuiti venuti dalle Spagne, la cui corona propose subito a Ukon di rovesciare lo shōgun. Ma il daimyō era un uomo d’onore. Si rifiutò e 40 giorni dopo, il 5 febbraio 1615, morì di malattia. Il 7 febbraio 2017 Papa Francesco lo ha beatificato, padre della seconda evangelizzazione delle Filippine.

A questa storia, eroica e tristissima al contempo, il romanziere cattolico giapponese Endō Shūsaku (1923-1996) ha ispirato il proprio capolavoro, Silence (沈黙), pubblicato nel 1966. Il romanzo è stato poi adattato in tre film: il primo, con titolo identico al libro, diretto da Shinoda Masahiro nel 1971; il secondo, oggetto di controversie, diretto da Martin Scorsese, sempre con il medesimo titolo, nel 2016; e il terzo, nel mezzo, uscito nel 1996 con il tiolo Os Olhos da Ásia (“Gli occhi dell’Asia”), diretto dal portoghese João Mário Lourenço Bagão Grilo.

Ora, lo specchio “magico” che nel 2014 il defunto Abe Shinzo regalò allo stesso Papa cattolico che nel 2017 avrebbe esaltato il samurai di Cristo alla gloria degli altari racconta una grande storia di persecuzione religiosa e di lotta per le libertà fondamentali. Si può solo immaginare il coraggio di quel patriota giapponese che ha trovato il modo per pentirsi pubblicamente dei misfatti degli antenati davanti al Pontefice, senza perdere l’onore proprio e del proprio grande Paese.

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