Last updated on Novembre 3rd, 2020 at 02:04 pm
Sui muri anneriti delle chiese cattoliche di Santiago del Cile è rimasta la scritta «Morte al Nazareno» dopo che, domenica 18 ottobre, la guglia della parrocchia dell’Assunzione è crollata in seguito a un incendio fra le grida di giubilo dei dimostranti. Poco prima un uomo aveva sfondato il rosone centrale dell’edificio di culto, riuscendo ad abbattere l’effigie di Maria Santissima con il Bambino Gesù in braccio e facendola precipitare a terra in frantumi, mentre crocifissi e statue di santi venivano avvolti dalle fiamme anche nella chiesa di San Francesco Borgia.
Siamo di fronte a una sequela di atti evidenti di cristianofobia che hanno fatto il giro del mondo, sebbene diffuse con sgomento sui social network soltanto da poche persone e per lo più da agenzie di stampa cattoliche.
Non per questo gli autori delle violenze se ne vogliono assumere la responsabilità, anzi. Si sono fatti fotografare incappucciati, nel rogo e mentre razziavano le raffigurazioni del Sacro Cuore, come i terroristi dell’ISIS. Esattamente come questi ultimi, hanno decapitato immagini sacre e appiccato il fuoco ai templi cristiani, ma i jihadisti rivendicavano le loro azioni. I comunisti sudamericani non hanno invece nemmeno quel coraggio. Ora tentano di attribuire il gesto a agenti infiltrati dei carabineros, il corpo di polizia nazionale, che proprio nella chiesa di San Francesco Borgia svolge le proprie cerimonie pubbliche.
Le indagini sono tuttora in corso e, fra le cinque persone arrestate per gli attacchi di domenica, vi sarebbe anche un militare, anche se quell’unica circostanza non è sufficiente a costruire una tesi accusatoria.
I filmati postati su Twitter dalle forze dell’ordine documentano chiaramente le azioni di guerriglia scatenate domenica dai dimostranti, scesi in piazza nel primo anniversario delle manifestazioni del 2019, durante le quali 30 persone furono uccise e la polizia fu criticata per l’eccessivo uso della forza.
Schierata in prima fila, Amnesty International sta ora tentando di creare un caso sulle presunte violazioni dei diritti umani commesse dalle forze armate fra l’ottobre e il novembre 2019, durante lo stato d’emergenza. Nel dossier non sono tuttavia presi in considerazione gli episodi di violenza dei quali sono stati protagonisti i manifestanti. Soffiando sul fuoco della rivolta, insomma, si contribuisce a far sprofondare ancora più il Paese nello spirito della vendetta e del caos.
Anche un anno fa le chiese erano state deturpate e fatte oggetto di vandalismi, perciò l’arcivescovo di Santiago del Cile, monsignor Celestino Aós, in un comunicato stampa diffuso sulla pagina web dell’episcopato, ha chiesto ai cattolici del Paese e a tutte le persone di buona volontà, che amano la pace, di dire basta alla violenza: «Non giustifichiamo l’ingiustificabile», si legge nella nota riportata anche da Vatican News, «Dio non vuole la violenza. Ci riuniremo come comunità di credenti per compiere atti di espiazione e di riparazione». Nel testo, firmato da mons. Santiago Silva Retamales, presidente della Conferenza episcopale cilena, e da mons. Luis Fernando Ramos Pérez, segretario generale, i prelati affermano che i fatti accaduti «dimostrano che non ci sono limiti per chi usa violenza». Fare leva sul disagio sociale per trasformare un Paese in un inferno, non è la soluzione, spiegano i vescovi: «La stragrande maggioranza del Cile desidera giustizia e misure efficaci che contribuiscano a superare la disuguaglianza, la corruzione e gli abusi. Crediamo che questa maggioranza non sostenga o giustifichi le azioni violente che causano dolore alle persone e alle famiglie, danneggiando le comunità che non possono vivere pacificamente nelle loro case, spaventate da chi non vuole costruire nulla, ma piuttosto distruggere tutto».
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