Last updated on marzo 2nd, 2021 at 01:14 am
Ogni civiltà ha avuto nella storia un processo di nascita, di splendore e di decadenza. Ma la civiltà occidentale presenta una caratteristica che la differenzia dalle altre: è l’unica che, grazie alla radice ebraico-cristiana, ha prodotto una concezione universalistica, in cui l’uomo è un essere razionale che riconosce la legge naturale e può scegliere tra il bene e il male. Il patrimonio della civiltà occidentale dunque appartiene all’umanità tutta. Patrimonio che, tuttavia, rischia di essere dilapidato dall’insorgere, in seno all’Occidente stesso, dell’ideologia relativista. Lo storico Eugenio Capozzi ha affrontato la questione in modo esauriente e incisivo nel suo saggio L’autodistruzione dell’Occidente. Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo
Quando ha inizio il tunnel di nichilismo che lei denuncia nel libro?
Quando la concezione dell’uomo definita dal razionalismo cristiano, innervata dall’eredità greco-romana ed ebraica, produce la grande espansione europea nel mondo che chiamiamo modernità. In particolare, gli spettacolari successi della rivoluzione scientifica e degli Stati europei moderni introducono nell’umanesimo un’eco gnostica, che si traduce nell’iper-umanesimo «faustiano», ispirato dalla convinzione di un’illimitata potenzialità di realizzazione pratica: lo scientismo, il culto della potenza e il biopotere sono i risultati di questa mutazione genetica.
Lei scrive, riprendendo Oswald Spengler (1880-1936), che una civiltà sussiste solo fintanto che chi ne fa parte condivide una visione del mondo. La tomba della nostra civiltà è la bulimia di diritti individuali?
Il fattore fondamentale di squilibrio culturale e psicologico della civiltà di radice europea è l’abbandono dell’universalismo cristiano e dell’idea di legge di natura in favore del relativismo e del soggettivismo. Questo avviene in epoca moderna con le ideologie e filosofie della storia, in epoca contemporanea con l’imporsi di una autocritica radicale della cultura occidentale ai propri stessi fondamenti, oggi incarnata dall’egemonia tra le élites dell’«utopia diversitaria», dal transumanesimo, dall’ecologismo antiumanista.
La questione antropologica assume dunque un ruolo cruciale in questo processo…
Sì, perché l’umanesimo occidentale si fondava su una visione dell’uomo come essere razionale e libero, ma anche conscio dei propri limiti in quanto inseriva se stesso in una realtà fondata nel trascendente. Quando questo equilibrio si rompe, la cultura europea comincia sempre più a pensare l’uomo come scisso profondamente tra una tensione iper-umana e un retaggio sub-umano: da un lato gli «elevati», aspiranti all’onnipotenza della scienza e del dominio politico, dall’altra un’umanità dipendente, passiva, oggetto di manipolazione e sperimentazione in vista del «mondo nuovo». La natura umana non viene pensata come una realtà stabile, fondata su un equilibrio, ma come un insieme di forze, spinte, impulsi, mobile e modificabile, che può e deve essere riplasmata da chi sa e può, ma in ultima analisi è schiava di quella che Nietzsche avrebbe chiamato la volontà di potenza.
Nel libro scrive di «paganesimo ambientalista». C’è una saldatura tra questo fenomeno e il «soggettivismo biopolitico»?
L’ambientalismo deriva dalla cultura romantica, aristocratica e borghese dell’Europa e del mondo anglosassone. È, in origine, una forma di tradizionalismo conservatore, fondato sull’idea di salvaguardare l’identità culturale. Con la mutazione ideologica degli anni 1960 nasce in Occidente una nuova forma di ambientalismo, imperniata sull’idea che l’ambiente debba essere salvato dall’invadenza e dallo sfruttamento umano. Essa si evolve poi nella concezione totalmente relativistica secondo cui l’uomo non è più il centro dell’universo, né svolge in esso una funzione necessaria, ma è un «ospite» dell’«ecosistema», che arreca più danni che benefici. Il «pianeta», la «Terra» diventa, sostituendo le gerarchie del creazionismo cristiano, una divinità da adorare, una grande entità vivente le cui componenti hanno tutte uguale valore, e non esiste più una supremazia dell’essere vivente razionale. Questa svalutazione profonda della natura umana, questa sua riduzione ad una presenza casuale, si incontra con il relativismo che vede nell’uomo soltanto un fascio di pulsioni e desideri, identificati ormai in quanto tali con i diritti soggettivi, perché i diritti non vengono più connessi ad un soggetto che trae la sua dignità dal fatto di essere stato creato da Dio a propria immagine e somiglianza.
In questi mesi lei ha reiterato sui social critiche corrosive alle politiche di contrasto al CoViD-19. L’autodistruzione dell’Occidente vive in questa fase storica un tornante decisivo?
Nell’emergenzialismo «sanitocratico» il relativismo proprio della cultura occidentale decadente passa dal culto dei desideri soggettivi alla riduzione dell’umano a quella che Agamben chiama «nuda vita»: in nome della «bio-sicurezza» si può, anzi si deve, rinunciare ad ogni libertà, perché l’essere umano non ha più dignità come tale, ma è ridotto a un’entità «zoologica». È la tendenza di società sempre più anziane e scettiche, attaccate solo ai beni terreni, a ripiegarsi fatalmente su se stesse, vivendo nella schiavitù della paura, perché non esiste più in esse un’idea condivisa della vita, del suo senso, della sua dignità, e quindi nemmeno si può porre un rapporto equilibrato tra la vita e la morte.
Nel testo evoca l’«odio di sé», definizione con cui l’allora card. Joseph Ratzinger descriveva il rapporto degli occidentali con la propria storia. Oggi il fenomeno della cancel culture ne rappresenta l’apoteosi. È una spirale inarrestabile o ne possiamo uscire?
Nella storia non esistono esiti ineluttabili e predestinati. Certamente la civiltà occidentale è l’unica che ha trasceso se stessa con la costruzione di un universalismo etico e filosofico in grado di costituire una koinè mondiale, è però contemporaneamente anche l’unica che ha sviluppato una cultura autodistruttiva, quella del senso di colpa per ogni male del mondo, della convinzione di essere gli «schiavisti» del pianeta. Solo un risveglio religioso in cui l’Occidente recuperasse la sua «missione» universalistica potrebbe trascinarlo fuori dal circolo vizioso dell’autodistruzione.
E se questo risveglio religioso non avverrà?
L’Occidente sarà sempre più marginalizzato nel mondo globalizzato, che è mondo iper-conflittuale di scontro tra civiltà volte all’espansione, fino ad essere assoggettato e diviso tra esse. Sta già accadendo, soprattutto in Europa, e molto più in fretta di quanto possiamo pensare.
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