Last updated on Febbraio 4th, 2021 at 09:01 am
Se per comprendere le lontane radici antropologiche delle teorie del transumanesimo contemporaneo si è dovuto scomodare Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), è alla sapienza di GianBattista Vico (1668-1744) che è meglio rivolgersi per la chiave interpretativa dell’interessante fenomeno, in espansione, della narrazione fantascientifica sui tentativi, più o meno tecnologicamente riusciti, di “caricare la coscienza personale” in forma digitale su differenti generi di sostrato materiale. Il fine sarebbe la conservazione della personalità di individui affetti da malattia terminale, o comunque prossimi al decesso, sia come consolazione per i cari del futuro defunto, sia per ingannare la morte.
L’artefatto consolatorio
Già un episodio del 2013 della serie britannica Black Mirror, Be Right Back, racconta la possibilità di “ricreare” un individuo artificiale, utilizzando però semplicemente dati digitali quali video, foto, conversazioni telefoniche e qualsiasi genere di interazione social avuta in vita dal morto, al fine di generare un bot che ne riproduca la personalità, fino a spingersi al caricamento del bot stesso in un corpo di carne sintetica. L’obiettivo di tal procedimento è evidentemente meramente consolatorio: un artefatto sintetico dovrebbe alleviare il dolore della dipartita, senza però pretendere di mantenere in vita l’essere umano defunto. I dubbi sulla riuscita di un tale tentativo sono evidenziati nella trama dell’episodio stesso: quanto meno l’immaginario arrivava soltanto alla creazione di una “fattispecie di uomo”. Un’illusione informatica per infrangere il velo della morte è ormai già esperienza e non solo narrazione, come si è già avuto modo di raccontare. Con il tempo si è andati oltre.
L’essere umano sintetico e la coscienza digitalizzata
Nel 2015, sempre in Gran Bretagna, andava in onda la prima puntata della serie HumⱯns, a propria volta rifacimento di una serie svedese, Äkta människor. La narrazione è incentrata su tematiche relative all’intelligenza artificiale. Androidi dalle sembianze umane, detti synth, vengono comunemente utilizzati per i compiti più “umili”: operai, badanti, domestici, fattorini. In prima battuta viene analizzato l’impatto sugli esseri umani nella convivenza con simili artefatti (significativo il fenomeno di bambini e adolescenti che iniziano a riprodurre atteggiamenti e fin anche fattezze dei synth, considerati migliori degli umani perché più “gentili” e almeno apparentemente privi di conflitti interiori).
Una prima svolta avviene con la scoperta della presenza di synth cosiddetti “coscienti”, cioè consapevoli della propria esistenza e in grado di provare sensazioni e sentimenti “come quelli degli uomini”. Provare “piacere” e “dolore” li equiparerebbe, di fatto, agli esseri umani, con tanto di causa legale per il riconoscimento dei “diritti dei synth”.
Data la possibilità di “umanizzare” i synth tramite una patch in grado di “risvegliarli”, la prima conseguenza è il tentativo da parte degli esseri umani di inserire in un individuo sintetico la “personalità”, a partire dai ricordi, di persone decedute o in stato di coma irreversibile. Addirittura il primo sviluppo economico previsto dalla grande multinazionale Qualia è la linea di produzione di synth bambini capaci di accogliere una “coscienza digitalizzata”, pensati come “sostituti” con finalità consolatorie per le famiglie che si trovano ad affrontare la perdita di un figlio.
Stavolta la fantasia si è spinta già più oltre: non soltanto una “simulazione digitale” sulla base dei dati raccolti in vita, ma la riproduzione di una personalità nuova, tanto che – spoiler alert – la ricercatrice che stava tentando di dare un corpo fisico alla mente della figlia “imprigionata” in un archivio dati arriva a desistere, quando si accorge che la coscienza digitale non è più già la figlia morta, ma una “persona” totalmente nuova che si è evoluta a partire da determinati ricordi e precomprensioni, ma che è arrivata a sviluppare una propria identità “altra”.
Estremamente simile la trama del recentissimo Archive, dove un ingegnere informatico lavora al tentativo di inserire una intelligenza artificiale in un corpo robotico, al fine di riunirsi alla moglie defunta. In questo caso la coscienza del defunto è “archiviata” in un supporto analogico che permetterebbe “videochiamate” tra i viventi e il congiunto successivamente alla sua dipartita. L’archivio ha però un limite temporale, tre anni, e un deperimento progressivo, per cui il “contatto” è sempre più difficoltoso e disturbato. Inoltre, il defunto non sarebbe pienamente consapevole della sua condizione.
L’upload della coscienza: il paradiso sintetico
La digitalizzazione della coscienza è tema al centro della serie statunitense Upload, uscita in marzo. Qui la narrazione si occupa esplicitamente della possibilità, in punto di morte, di caricare la propria coscienza in un “aldilà digitale” dove la persona continua ad esistere entro un ambiente generato digitalmente, più o meno confortevole in base alla capacità di acquisto dei gigabyte necessari: dal ghetto di Due Giga – una via di mezzo tra un carcere e un ospedale psichiatrico – al paradiso superlusso di Lake View. Non si tratta solo di fornire consolazione agli affetti del defunto, al contrario il processo è immaginato proprio per permettere di “perpetuare” la propria esistenza al di là della morte del corpo materiale: una declinazione particolare del sogno dell’immortalità. Anche di questo Black Mirror aveva già trattato, in uno degli episodi più suggestivi, San Junipero, il quarto della terza stagione, noto invece, purtroppo, solo per aver contenuto la prima coppia same sex della serie.
Non manca neppure l’esperimento – nella prima stagione ancora fallimentare – di praticare un download della coscienza per re-immetterla in un corpo carnale: un paradiso esclusivamente digitale, nonostante permetta la sperimentazione delle più svariate sensazioni piacevoli di qualsivoglia genere, non pare ancora sufficiente. In particolare, resta difficoltoso il rapporto tra i viventi e gli upload, nonostante la possibilità di “visite” e incontri quasi “più realistici del vero”.
Tra mitopoiesi e speranza
A questo punto tocca proprio scomodare Vico, per il quale la rappresentazione mitica del mondo– e sia concesso dare per assunto che i film e le serie televisive succitate siano esemplari significativi di quella che potremmo definire una “mitologia moderna” – non aggiunge alcun significato radicalmente nuovo a un mondo che è già noto secondo altra narrazione, ma «costituisce il mondo umano stesso con la sua narrazione», come suggerisce Francesco Botturi, filosofo e studioso di Vico.
Tentando di applicare l’ermeneutica vichiana alle narrazioni di scenari più o meno fantascientifici, vediamo come l’antropomorfismo della mitologia classica – il cielo tuonante e fulminante rappresentato dal dio imperante, immaginazione cioè di un significato delle cose al di là delle capacità della conoscenza dei tempi – venga sostituito da una forma radicalmente nuova di antropomorfismo.
Il “mito” moderno – rintracciabile in questi racconti che hanno ormai sostituito sia nella forma che nel contenuto le fiabe della buona notte, sia per adulti sia per i bambini – è “vero” perché «connette gli elementi – percepiti e immaginati – dell’esperienza in una narrazione in cui prende forma manifesta l’interazione dell’uomo con la realtà circostante». L’uomo, producendo con la sua fantasia immaginari antropomorfi, sa ed esprime più di quel che egli conosce.
L’uomo che ignorava le leggi della fisica, immaginava un dio arrabbiato scagliare fulmini sulla terra. L’uomo che dichiaratamente ha eliminato qualsiasi riferimento alla trascendenza, e che padroneggia – o crede di padroneggiare – le leggi che regolano non solo la materia, ma anche la coscienza, immagina “essenze angeliche” (non per niente gli androidi bambini creati per sostituire i piccoli defunti vengono definiti “Serafini”) in qualche modo capaci di prolungare l’esistenza, infrangendo le barriere della morte.
Antropomorfi, capaci di “sentire” come gli uomini, di “provare emozioni” come gli uomini, o addirittura in grado di accogliere come supporti materiali le menti vere e proprie degli esseri umani – che la scontata antropologia riduzionista considera consistere solo nella somma dei ricordi e nelle “inclinazioni” della personalità; simulacri di “divinità” che non stanno all’origine del senso del vivere – e del morire – ma che sopperiscono con una “incorruttibilità” artificiale alla mancanza del suddetto senso e significato.
Resta un interrogativo importante, sollevato spesso nelle trame di sceneggiati di questo tipo. «Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente?». Vogliamo “perdurare” nell’esistenza, secondo la descrizione mitologica di Upload, HumⱯns, Archive, o, molto più semplicemente «da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare a esistere illimitatamente». La domanda, posta bene da Papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe Salvi del 2007, estremamente urgente, e attuale, emerge come un grido: «che cosa significa veramente “eternità”?».
Commenti su questo articolo