Last updated on aprile 27th, 2020 at 03:33 am
A inizio aprile, in Corea del Sud, un medico è stato condannato a 3 anni e 6 mesi di prigione per aver ucciso un bambino che, durante un aborto, è uscito dal ventre della mamma piangendo. Il dottore in questione, soprannominato Yun dai media locali per mantenere l’anonimato, era responsabile di una clinica di maternità e aveva ricevuto circa 23mila dollari americani dalla madre di una ragazzina di 16 anni per abortire il bambino che la giovane portava in grembo. Il piccolo aveva 34 settimane: la mamma dunque si avviava al nono mese di gravidanza.
Ma durante l’operazione qualcosa è andato storto. Anzi, l’obiettivo finale, l’eliminazione del bimbo, è stato raggiunto, peccato però che nel frattempo il piccolo sia di fatto nato, piangendo. A quel punto il dottore non ha fatto una piega e ha prontamente messo il neonato in un secchio pieno d’acqua. Il bambino è stato annegato davanti agli occhi di tutti i presenti.
In una dichiarazione resa nel Tribunale del Distretto Centrale di Seoul, che ha giudicato l’uomo colpevole di omicidio, i giudici hanno sottolineato come tutti i membri dello staff medico incaricato dell’operazione e dunque presenti in sala operatoria abbiano sentito il bambino piangere. Una vicenda tragica, questa, che getta luce su un’evidenza nascosta dalla (a)moralità prevalente in tema di aborto: ciò che sta nel ventre di una mamma è un bambino, suo figlio, un essere umano vivo, che respira e che si dimena.
La Corea del Sud non è nuova a casi particolarmente sconcertanti di interruzioni volontarie di gravidanza. L’anno scorso una clinica di Seoul ha praticato un aborto sulla mamma sbagliata. Una donna, incinta di sei settimane, si è presentata in ospedale per una visita. I medici l’hanno anestetizzata e hanno abortito il bimbo che portava in grembo, scambiandola per un’altra donna gravida. Una tragedia, ma apparentemente senza conseguenze, tranne che per il figlio abortito e per sua mamma. Nessuno è infatti stato arrestato e non è stata aperta alcuna indagine per omicidio, giacché la legge sudcoreana non considera il feto un essere umano. Di conseguenza, la normativa relativa all’omicidio accidentale non è stata applicata.
Nel Paese asiatico l’aborto è però vietato per legge, tranne in alcuni casi come lo stupro, l’incesto o quando è a rischio la salute della donna. Le cose però cambieranno quest’anno, dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato illegale questo divieto che «viola il diritto di scelta delle donne incinte». Una motivazione, questa, che è all’origine di molta della legislazione favorevole all’aborto nel mondo e che tuttavia decide di considerare scientemente un solo aspetto della vicenda, cioè il lato della donna, senza considerare che i soggetti implicati sono due, la madre e il figlio. Nel frattempo i giudici della Corte costituzionale sudcoreana hanno dato tempo al parlamento fino alla fine del 2020 per modificare la normativa vigente e decidere se consentire o meno l’aborto nelle fasi più avanzate della gravidanza.
È una questione evidentemente molto controversa, dal momento che nel 2012 la stessa Corte aveva ritenuto del tutto legittimo, in base alla Costituzione, il divieto di aborto, riconoscendo il diritto alla vita del feto nel grembo materno.
Si consideri inoltre come negli anni 1970 e 1980 le autorità sudcoreane abbiano invitato le coppie a fare meno di due figli, onde contenere la crescita demografica. Ma negli ultimi anni l’andamento demografico del Paese si è rovesciato e la Corea del Sud fronteggia ora una crisi grave, con una media di meno di un bambino per donna. A fronte di ciò, il governo ha cambiato atteggiamento e anche il numero degli aborti è calato: da 342mila nel 2005 a 49.700 del 2017. C’è chi però ritiene che, oltre le statistiche ufficiali, i numeri siano molto più alti.
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