Last updated on aprile 3rd, 2020 at 06:18 am
In un articolo pubblicato su Public Discourse: The Journal of the Whitherspoon Institute, Paul Dirks fa efficacemente il punto dei risultati ottenuti da numerose ricerche scientifiche svolte negli ultimi anni sulle modalità utilizzate per trattare la disforia di genere e la transizione da un sesso all’altro, modalità destinate in particolare a ragazzi in fase puberale. La disforia di genere è il nome con cui oggi viene chiamato il disturbo dell’identità di genere, una condizione in cui, seppur non viene riscontrata né a livello fisiologico né anatomico del corpo alcuna anormalità o problematicità, nel soggetto si produce una condizione di sofferenza dovuta al sentirsi appartenere al genere opposto al proprio sesso biologico.
Un aspetto fondante l’identità umana è la sessualità di ciascuna persona. La sessualità, come ricorda lo psicologo e psicoterapeuta Roberto Marchesini, sinteticamente per esempio nell’opuscolo L’identità di genere, non è un “accidente”, bensì parte costitutiva e fondante dell’io. In altre parole, alla nascita ciascuno possiede già un sesso: non si nasce neutri o asessuati. La persona è quindi un’unità completa, di cui fa parte anche la sessualità. L’identità sessuale è rappresentata dall’unidirezionalità di varie componenti fisiche e psicologiche, dal sesso in senso strettamente biologico e genetico all’identità appunto di genere, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.
Non sempre l’individuo raggiunge però quest’armonia e a volte può evidenziarsi una frattura. A quel punto emergono patologie vere e proprie, se la problematica è fisiologica, oppure disordini o disturbi, se le problematiche riguardano la sfera psicologica e identitaria. Negli ultimi anni si è però affermata l’idea che non sussista necessariamente un legame tra identità di genere e orientamento sessuale, e che quindi i disordini di identità riguardanti la sfera sessuale non siano più tali, ma solo tendenze che vanno assecondate dalla società e dalla medicina. In parole molto semplici, si ritiene che non ci debba essere una corrispondenza necessaria tra il nascere maschio o femmina (sesso genetico e gonadico corrispondente) e il sentirsi maschio o femmina (l’identificazione sessuale di sé).
Solo e sempre assecondare il disturbo
Quando emergono queste disforie, l’unico trattamento clinico che viene proposto oggi è la cosiddetta transizione da un sesso all’altro. Il trattamento di transizione in età puberale, simile per tutto a quello in fase adulta, avviene in genere mediante due livelli: il primo, in una fase precoce attorno ai 12 anni, consiste nella somministrazione di ormoni sessuali e un secondo, in una fase successiva, attorno ai 13 anni, consta di un intervento chirurgico di cambiamento totale e completo del sesso. La terapia è pertanto fatta di farmaci che bloccano la pubertà, ormoni sessuali e interventi chirurgici come, a seconda del sesso di partenza, la mastectomia, la vaginoplastica e la falloplastica. Ora, lascia quanto meno perplessi il fatto che la medicina abbia deciso di trattare queste situazioni nella maniera più radicale, pur di fronte a una fase, quella puberale, generalmente considerata densa di cambiamenti e assestamenti sia ormonali sia anatomici, quindi fisici, sia psicologici legati all’età evolutiva: le uniche procedure cliniche o psichiatriche intraprese vanno insomma nella direzione dell’assecondamento della disforia. Non esiste, infatti, come osserva il medico e bioeticista Renzo Puccetti in LegGender metropolitane, alcun trattamento che tenda invece a contrastare la dissonanza tra mente e corpo nella direzione dell’appartenenza sessuale fisica. In una condizione, quindi, in cui il soggetto adolescente sente di non identificarsi più con il proprio sesso di nascita, invece di intraprendere una qualche terapia o tentativo di ridurre la dissonanza a favore dell’evidenza fisiologica di appartenenza, almeno aspettando di superare le fasi critiche della pubertà e della prima giovinezza, la medicina ha preferito condurre questi ragazzi e ragazze direttamente e, senza appello, verso il rafforzamento della disforia.
Qualità scarsa
Ma torniamo all’articolo di Dirks, in cui viene offerta una panoramica molto ampia dei diversi lavori scientifici effettuati sui trattamenti di transizione. Il primo problema che ne emerge, anche secondo la recensione della letteratura scientifica a tema effettuata nel 2018, è la bassa qualità della maggior parte di essi. Problematici sono diversi elementi: la lunghezza dello studio, vale a dire il tempo intercorso fra il trattamento e l’ultima rilevazione dei dati; il numero di campioni presi in esame in partenza, molto spesso esiguo; infine la mancanza di controllo a medio e a lungo termine dei risultati e dell’efficacia. In moltissimi casi, infatti, si registra un alto tasso di ritirati per il follow-up durante lo studio: la recensione del 2018 ha del resto trovato che soltanto 2 studi su 29 abbiano garantito una campionatura accettabile in termini numerici, e un follow-up a medio e lungo termine consistente.
La maggior parte degli studiosi riconosce come il primo e il secondo anno successivi al trattamento farmacologico e all’intervento chirurgico risultino, indipendentemente dall’età, una sorta di “Luna di miele”: la persona dimostra, cioè, una qualità della vita migliorata rispetto ai momenti precedenti il trattamento. Ma le cose cambiano quando si prolungano i tempi di indagine e di osservazione. Tenendo conto dell’irreversibilità del trattamento cui questi adolescenti vengono sottoposti, è opportuno, secondo molti studiosi, effettuare follow-up di termine più lungo, verificando la condizione psicologica e di qualità della vita dei soggetti trattati anche a 3, 5 o 10 anni di distanza. I cambiamenti determinati dalla terapia sono infatti irreversibili e accompagneranno il soggetto per tutta la sua vita. Sfortunatamente, ed è questo il j’accuse più consistente di Dirks, almeno il 20% dei sottoposti a queste indagini si perde strada facendo.
Cresce il numero di chi cerca di uccidersi
Come va interpretato questo dato? La prima considerazione, sottolineata da diversi specialisti, è che a perdersi, e quindi a rinunciare al completamento del follow-up, sono soprattutto i soggetti che, nel corso degli anni successivi al trattamento, hanno riscontrato le difficoltà maggiori di adattamento e di accettazione della nuova situazione. Anche quando sono stati presentati studi i cui risultati mostravano una buona condizione e una qualità della vita a lungo termine, il tasso di perdita al follow-up più lungo (5 anni) arrivava addirittura a picchi del 49,3%.
Interessanti sono anche altre considerazioni. Per esempio il fatto che il peggior outcome a medio e a lungo termine lo abbiano gli uomini e i ragazzi che hanno effettuato il cambiamento verso l’essere donna: chi si sottopone a questi trattamenti subisce, infatti, il 51% in più di mortalità rispetto alle donne che hanno effettuato lo stesso trattamento per diventare uomini. Mortalità dovuta principalmente agli alti tassi di suicidi, a malattie quali AIDS, patologie cardiovascolari e abuso di droga, mortalità che pure aumenta con l’aumentare degli anni trascorsi dal trattamento. Anche studi esplicitamente a favore dei trattamenti di transizione di sesso, come per esempio quello presentato da Noah Adams, Maaya Hitomi e Cherie Moody nel 2017, evidenziano che il tasso di suicidi, o anche solo di intenzioni suicide, espressi dopo il trattamento raggiungano il 50,6% nell’ultimo anno prima dell’intervista rispetto al 36.1% espresso dagli stessi soggetti e riferito al periodo precedente il trattamento. In altre parole, se un soggetto mostrava o esprimeva intenti suicidi prima di entrare nella batteria degli interventi di transizione di sesso per il 36,1% degli intervistati, dopo il trattamento a dichiarare una tendenza suicidaria era il 50,6% degli intervistati.
Queste considerazioni, che emergono dall’analisi dei numerosi studi effettuati e di cui Dirks offre una panoramica ampia, correlati all’irreversibilità dei trattamenti offerti anche a soggetti molto giovani, dovrebbe far riflettere pertanto sulla necessità, quanto meno, di approfondire gli studi in questa direzione soprattutto sul lungo termine e di procedere con maggiore cautela alla transizione sessuale per ragazzi in fase prepuberale e puberale.
Ma altre domande necessiterebbero di una risposta: non solo quelle relative a come molte persone sottoposte al cambio di sesso vivano la propria esistenza anni dopo l’intervento, ma anche a quanti hanno deciso, dopo lungo tempo, di sottoporsi, quando e dove possibile, a interventi di ritransizione al sesso di partenza, fenomeno anch’esso presente sporadicamente negli studi, ma che dovrebbe essere approfondito. O, ancora, quanti suicidi siano riscontrabili nei gruppi di persone che hanno effettuato la transizione. Questioni che, come è evidente, sono di importanza vitale per tutti coloro che soffrano di questi disturbi e ai quali viene offerto solo un intervento clinico, farmacologico e chirurgico, che ne cambierà per sempre le vite a partire dalla rimozione di parti funzionanti e sane del corpo fino alla somministrazione di dosi massicce di ormoni sessuali.
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