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L’espressione «sviluppo sostenibile», introdotta nel Rapporto Brundtland del 1987, si è poi diffusa a seguito del Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992 e della Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo, svoltasi a Il Cairo nel settembre 1994 e organizzata dall’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione. Già il Club di Roma, fondato nel 1968, aveva iniziato a lanciare l’allarme sugli squilibri della crescita, evidenziati nel noto “Rapporto Meadows” sui limiti dello sviluppo del 1972 ‒ dal nome della prima co-autrice, l’ambientalista statunitense Donella H. Meadows (1941-2001) ‒, aggiornato ripetutamente con ipotesi di scenari plurimi in base a modelli previsivi matematici. A partire dal 1996, introdotta da Mathis Wackernagel e da William Rees, si è diffusa anche l’ipotesi della cosiddetta «impronta ecologica», che misurerebbe l’impatto dell’uomo sulla Terra mediante un complesso indicatore aggiornato periodicamente dal WWF a partire dal 1999.
Il fil rouge che lega queste idee è che la popolazione mondiale cresca troppo, con il rischio di produrre rischi seri di carenza delle risorse disponibili nei prossimi decenni. La “soluzione” proposta è del resto sempre quella di contrastare la crescita demografica con la «pianificazione familiare» per la «salute riproduttiva e sessuale», che, nella neolingua dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), significa promozione della contraccezione, della sterilizzazione, di quell’altro male nefando che è l’aborto e ultimamente anche dell’eutanasia, i nuovi “diritti umani” da promuovere e, nel caso, da imporre.
Negli ultimi dieci anni si è aggiunta anche l’idea della «decrescita felice». Proposta dall’economista e filosofo francese Serge Latouche, è la condanna della ricerca della crescita economica e sociale a favore di un bien vivre in cui si è più poveri, certamente, ma in compenso più felici. Ora, la «decrescita felice» si sposa perfettamente con le politiche antinataliste ostili alla famiglia naturale ed è un vessillo pauperista di moda nella Sinistra radical-chic e no-global. In realtà non vi è però proprio nulla di felice nella decrescita, e per capirlo non occorrono studi di storia sociale ed economica, ma basta il buon senso del padre di famiglia.
Il ritorno del malthusianesimo
L’idea dello «sviluppo sostenibile» e quella della «decrescita felice» partono da una visione “statica” della ricchezza e delle risorse a disposizione: una prospettiva pessimistica e negativa in cui l’uomo è visto per lo più come un elemento di disturbo, una voce passiva nel bilancio, una sorta di parassita o di cancro. Il “decrescismo” di Latouche e simili è del resto l’ultimo sviluppo delle tesi del pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), un economista e demografo che predicava politiche antinataliste (ma predicando l’astinenza sessuale, non la contraccezione, l’aborto, la sterilizzazione e l’eutanasia) come unica soluzione utile ad assicurare la felicità umana a fronte di una pretesa scarsità di risorse naturali, in specie alimentari.
Secondo tali prospettive, le risorse si considerano come un dato o comunque si ritiene possano crescere secondo una progressione aritmetica, laddove invece la popolazione crescerebbe secondo una progressione geometrica, arrivando quindi, prima o poi, al punto di rottura. Ragionando così, diviene gioco-forza contenere il numero dei commensali con ogni mezzo, onde eliminare le persone la cui “qualità” di vita appaia “inadeguata”.
Smentendo i “profeti di sventura”, però, l’esperienza degli ultimi due secoli – caratterizzati da un progresso esponenziale in campo scientifico, tecnologico e medico – ha dimostrato invece la capacità dell’ingegno umano di moltiplicare le risorse esistenti in modo assai più rapido della crescita della popolazione. In particolare, a partire dagli anni 1970 ‒ paradossalmente proprio in corrispondenza della diffusione delle previsioni nefaste ‒ si è assistito nel mondo a un progressivo tracollo nel numero delle persone in condizioni di estrema povertà, in termini sia assoluti sia relativi. La percentuale dei poveri è cioè diminuita vistosamente, passando dal 60,1% del 1970 al 9,6% del 2015: ancora troppi poveri, certamente, ma mai così pochi nella storia dell’umanità.
Nonostante la vulgata attuale predichi il contrario, grazie all’innovazione tecnologica e alla crescita professionale si riesce a ottenere infatti sempre di più utilizzando risorse sempre minori, con inquinamento in calo nei Paesi sviluppati e ricchezza che si sta diffondendo anche nei Paesi poveri, grazie anche al commercio e agli aiuti internazionali, nonostante la popolazione sia cresciuta. Caetera desiderantur, certamente, ma falsificare i dati serve solo a sbagliare diagnosi e conseguentemente anche terapia.
Il giro mentale dei “sostenibilisti” è peraltro lo stesso dell’ideologia ambientalista, uan sorta di neopaganesimo tutto postmoderno centrato sulla “difesa dell’ambiente”, laddove la minaccia è sempre l’uomo e l’“ambiente” non è certamente il “creato” della prospettiva per esempio giudaico-cristiana.
Il catastrofismo ecologista
Guardando alla realtà senza inforcare gli occhiali dell’ideologia, bisogna prendere cioè atto che proprio la denatalità e l’invecchiamento demografico che affliggono da decenni il Giappone e tutti i Paesi sviluppati sono tra le cause strutturali dell’avvitamento economico-finanziario degli ultimi lustri. Nei prossimi decenni i Paesi ricchi dovranno infatti fronteggiare una minaccia esattamente opposta a quella paventata: non già una “esplosione” demografica – come vaticinava erroneamente l’ambientalista e biologo statunitense Paul R. Ehrlich in The Population Bomb, bestseller e longseller del 1968 –, bensì una vera e propria “implosione” demografica, che renderà sempre meno “sostenibili” i conti della previdenza sociale e assicurativa, così come a quelli dell’assistenza sanitaria. In Italia l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile verso i 70 anni è già una prima conseguenza del “suicidio demografico” in atto da oltre trent’anni.
In aggiunta al mito della crescita demografica “insostenibile”, il catastrofismo ecologista, fondato sull’ipotesi del surriscaldamento della Terra e del conseguente cambiamento climatico del pianeta, di pretesa origine antropica – peraltro osteggiato da scienziati seri come Carlo Rubbia e Antonino Zichichi, per restare all’Italia –, prima diffonde artatamente il panico e poi propone come “soluzione” improcrastinabile incentivi plurimiliardari all’industria green, ovviamente con ingenti risorse prelevate coattivamente dai contribuenti, spesso neppure in modo trasparente. In tal modo lievitano i costi di molti tra beni e servizi, con effetti “regressivi”, proprio come capita con le imposte indirette, cioè oneri percentualmente più elevati al decrescere del reddito. I benefici invece, a parte quelli delle industrie sovvenzionate, sono tutti da dimostrare. Dirottare risorse scarse per lottare prioritariamente contro la CO2 rischia infatti di essere un’arma di distrazione di massa dagli effetti deleteri sullo sviluppo autentico, con pesanti effetti redistributivi della ricchezza e ricadute negative soprattutto per i meno abbienti. La pretesa “sostenibilità”, imposta dirigisticamente da élite “illuminate” a livello planetario, rischia di portare insomma a un uso inefficiente delle risorse, a limitare le capacità di crescita a svantaggio dei popoli e delle classi sociali più povere, arricchendo al contempo industrie che beneficeranno di contributi pubblici e di maggiori finanziamenti privati perché appariranno più eco-friendly. Le pianificazioni centralizzate falliscono sempre perché mortificano la creatività e la libertà economica, che sono i veri motori dello sviluppo. Per una sorta di “eterogenesi dei fini”, lo “sviluppo sostenibile” potrebbe cioè divenire, nei fatti, “insostenibile”.
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