Vedere il disastro senza guardarlo

La pedagogia di «Rocketman» e «Bohemian Rhapsody»

Disastro

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Last updated on Gennaio 15th, 2021 at 08:10 am

Ho visto Rocketman, il film del maggio 2019 diretto da Dexter Fletcher, solo ieri sera. Sì, non è una cosa da confessionale, ma, nel mondo in cui viviamo, se non rispondi a un WhatsApp entro tre secondi, sei solo un boomer oppure qualcuno ha già chiamato l’ambulanza pensando a un malore.

Rocketman narra un pezzo della storia del famoso cantante inglese Elton John. Viene in mente Bohemian Rhapsody, il film del 2019 diretto da Bryan Singer, sul famoso cantante inglese Freddie Mercury (1946-1991), frontman dei Queen. Sono infatti lo stesso film.

Entrambi raccontano la storia di due star, entrambi cantanti, entrambi pianisti, entrambi di talento. Entrambi inglesi: Elton John dalla nascita, Freddie Mercury nascondendo le proprie radici parsi. Entrambi i film si intitolano come due delle loro canzoni più celebri, come nel mito romantico-decadente della vita che imita l’arte, salvo poi finire nell’incubo di Dorian Gray. Entrambi sono celebrità pop (non solo nel senso musicale del termine) e omosessuali: celebrità del mondo omosessuale, omosessuali nel mondo delle celebrità. Entrambe le loro vite da film ed entrambi i film delle loro vite sono la storia di un lieto fine che non c’è.

Ma questo la gente che vede i due film non lo guarda. Il pubblico pensa di assistere a una fiaba postmoderna in cui il cattivo, in questo caso il disgraziato, tocca il fondo solo per risalire rinato a vita nuova. Il pubblico fa così perché questo è ciò che i due registi vogliono. I due film dettagliano la discesa agli inferi e finiscono sulla soglia del purgatorio. Il paradiso lo rimandano a domani, con un paio di frasette sovrimpresse di chiusura. Perché quel paradiso non esiste. Del resto Francesco De Sanctis (1817-1883) ha educato generazioni di studenti di Stato alla corbelleria secondo cui della Divina commedia è la prima, sulfurea cantica quella con gli attribuiti giacché sanguigna, carnale, quasi anticipando l’Oscar Wilde (1854-1900) de «il Paradiso lo preferisco per il clima, l’Inferno per la compagnia».

La gente pagante e plaudente pensa che il genio sia sregolatezza. La gente scende volentieri nella melma come l’Elton e il Freddie del grande schermo perché tanto è un film. Credono di vedere Milarepa di Liliana Cavani (1974). Eppoi sono due artisti insuperabili, ci si ripete addosso: fa niente se uno incide solo canzonette e l’altro esagera di manierismo, entrambi interpretando imitazioni di se stessi.

In realtà di quei due sullo schermo non frega nulla a nessuno. Ed è proprio questo che i film dicono, se qualcuno li guardasse. Famiglie incapaci di essere tali, affetti inesistenti, sanguisughe in ogni angolo e mai una carezza vera. Solitudine nera e amicizia a singhiozzi, ottima quando non disturba, sennò quella è la porta. Anzitutto però l’incapacità di accettarsi. Droga e omosessualità sono solo fughe, ma prima ancora maschere. Persino grida disperate di aiuto: ma, finché fingeremo tutti di non capirlo, le urla cresceranno. Non è un caso che droga e omosessualità si moltiplichino nel nostro mondo desertificato.

Elton e Freddie hanno voluto rifarsi con la vita per essere nati con la vita sbagliata e la loro vita nuova è la normalizzazione del disagio. Uccidere quel che si è per rifarsi daccapo. Il gesto estremo è il cambio, addirittura legale, del nome: e così Sir Elton Hercules John sopprime Reginald Kenneth Dwight nel 1972 e Freddie Mercury soffoca Farrokh Bulsara quasi nella stessa data.

Ma i film di Fletcher e Singer ci raccontano che, l’inferno desanctisiano alle spalle, la nuova vita è rose e fiori. Bugia. Freddie Mercury è morto di AIDS ed Elton John, “sposato” con un uomo, ha due bimbi da «utero in affitto». Rocketman e Bohemian Rhapsody vanno guardati, non solo visti. Quanti Reginald e quanti Farrokh siamo infatti disposti a perdere drogandoci di bugie?

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