Il grembo di una donna è fatto nel modo incredibile, meraviglioso e miracoloso in cui il grembo di una donna è fatto per l’amore e per accogliere, custodire, proteggere la vita. Sì, sono un uomo, non mi vergogno di esserlo, mai fatto, non cambio idea sulla mia sessualità al soffiare del vento e ho una opinione in merito. Soprattutto ho il diritto di proferirla.
La donna e la sua sessualità, la donna e la sua fisicità, la donna e il suo essere donna sono definiti dall’essere donna una donna e null’altro, alla faccia di chi non sa definire cosa sia una donna.
Una donna è il mistero donna, è la bellezza donna, è quella realtà che io uomo non sarò mai, ma che mi completa e mi complementa, mi approfondisce e mi asserisce, mi definisce e non mi sostituisce, esattamente come accade per lei, donna, con me, uomo.
Poi venne il twerking, che è quel modo tribolato più che tribale di shakerare i glutei ritmando i fianchi per sbattere il posteriore in faccia al prossimo a beneficio di telecamere e obiettivi voyeuristici, la negazione stessa del ballo, il contrario stesso di ogni sensualità, solo il sabba del disgusto, l’emancipazione della frustrata e il calpestare ogni sensualità di ogni femminilità di ogni magia della bellezza donna.
Il twerking si insinua, serpeggia. Tik-toka alla porta accanto, ammalia la casalinga, irretisce la cinghialotta, sviscera la ragazzetta, instagramma la pruderie da pattumiera. Il twerking è la comunicazione dissoluta e il cinema del disfacimento.
È la bandiera di una corporeità fuori posto, dello sgangheramento mentale, dell’inutile che spadroneggia, del brutto.
Oggi questo vessillo stracciato sventola fuori dalle cliniche dove all’interno si ammazzano i bambini.
Il giorno dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America di cancellare la sentenza del 1973 che ha reso “diritto” federale l’olocausto di circa 60 milioni di bimbi americani ancora nel grembo incredibile, meraviglioso e miracoloso, misterioso e armonico, bello e da innamorarsi, delle proprie mamme donne, 27 milioni dei quali, di fatto la metà, neri, come ricorda la nipote di Martin Luther King, Alveda King, davanti a una clinica di Dallas, Texas, le natiche flaccide e sgraziate di alcune donne fatte stupendamente e straordinariamente per essere madri hanno roteato sciamaniche il pandemonio, ridendo sguaiate per celebrare la cultura di morte, il trionfo del sicario, l’aborto dei bambini. Per rivendicare il “diritto” inesistente a sopprimere un innocente, per ribadire la libertà falsa di uccidere. Immaginiamoci essere uomini di fianco a donne così.
Festeggiavano, festeggiano, polverizzando con un colpo di natica il fascino donna, il mistero Eva, il nome «Colei che suscita la vita» dato dal primo uomo alla compagna della propria vita dopo averla identificata come «donna», praticamente, nell’etimo ebraico della complementarietà essenziale fra due differenze irriducibili, «uom-a».
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