Last updated on Agosto 26th, 2021 at 12:59 pm
Notevole l’articolo di Sebastiano Flaminio, esperto nel campo della protezione dei dati personali in Internet, comparso sull’ultimo numero di L-Jus, periodico del Centro Studi Rosario Livatino, con il titolo Social network contro Trump: l’esigenza di regolare la vita sul web.
La prima osservazione che vi compare è talmente logica e piana da risultare ovvia: «Negli anni 1990 nessuno avrebbe accettato di essere seguito costantemente, né sarebbe stato accettabile cedere ad alcuno le informazioni che riguardano la propria sfera personale». Eppure, continua l’autore, «oggi, proprio per le modalità d’uso della tecnologia, si accetta con leggerezza di far tracciare i propri spostamenti – magari col fine di ottenere un servizio di navigazione GPS per raggiungere un luogo, o semplicemente per far sapere di aver scattato una foto in una località turistica – e ancor più si accetta di cedere i propri dati, considerando tale azione un sacrificio di minima rilevanza, al fine di utilizzare gratuitamente qualunque servizio oggi disponibile su internet».
Semplice, icastico, realistico. Specie quando si pensi alla vita quotidiana di tante, tantissime persone, se è vero quanto sostiene Flaminio e cioè che «tali circostanze, poi, hanno cominciato ad avere maggiore impatto quando il mondo ha deciso di spostare parte della propria vita su piattaforme digitali, svolgendo lì molte delle azioni che riguardano lo sviluppo della personalità». È evidente che si stia parlando di Facebook, di Instagram, di TikTok per i più giovani, di Twitter per l’informazione e di Linkedin per i professionisti, di piattaforme di incontri di ogni genere e per ogni gusto, giù giù fino alle app per sportivi e dilettanti che monitorano le proprie performance o a quelle per organizzare scampagnate in compagnia. I social, insomma.
La giurisprudenza non può ignorare questa realtà nuova e a tratti sorprendente, poiché, come sottolinea l’autore dell’articolo, è indispensabile «una tutela efficace dei diritti della persona, riprendendo tradizionali categorie giuridiche, riadattandole, utilizzandole per risolvere problematiche inedite».
Ma si è solo all’inizio.
Capita talvolta che privati cittadini lamentino una vera e propria censura da parte dei social a post non esattamente allineati al pensiero mainstream su questioni particolarmente “sensibili”: l’aborto, per esempio, l’eutanasia, o personaggi politici italiani o stranieri che non riscuotono particolare simpatia. Spesso si tratta di temi e personaggi apertamente pro-life. Scatterebbero quindi i blocchi alla pubblicazione, oppure alla possibilità di “taggare” altre persone nei propri post, oppure a inserirvi dei link. Si usano il condizionale e mille cautele nel linguaggio perché la materia è scivolosa, e la sensazione talvolta di far parte di una sorta di “bolla” in cui la realtà assume connotazioni specifiche si fa strada come per caso nella mente.
Di nuovo, non è tutto qui.
L’ex presidente degli Stati Uniti d’America Donald J. Trump è stato bandito (tecnicamente, “bannato”) da Facebook e da Twitter e da altre piattaforme, forse per due anni o forse vita natural durante. È accaduto quando, una volta concluso il suo mandato presidenziale, gli si è attribuita la responsabilità politica dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, accusandolo, con la propria figura e con le proprie parole divisive e lesive della pace sociale, di avere incitato all’odio.
È però curioso che, proprio in questi giorni, su Twitter si legga tranquillamente l’“illuminato pensiero” del portavoce dei talebani, che hanno appena ripreso il potere con la violenza in Afghanistan.
Non pare del resto un fake, e comunque in questo mondo fatto non di persone in carne e ossa, ma di data e metadata, chi può dirlo?
Si fa strada, a questo punto, un refrain insistente: i social sono gratuiti solo all’apparenza. Nella realtà, muovono montagne di denari, legati naturalmente al numero di click per ogni contenuto pubblicato, che a loro volta generano a valanga introiti pubblicitari basati sul commercio dei dati degli utenti e che farebbero invidia a Paperon de’ Paperoni.
Infatti, rispetto all’utilizzo dei social media da parte di Trump, forse disinvolto, come afferma Flaminio appare evidente come «i due social network in realtà abbiano approfittato della presenza dell’ingombrante utente per ben quattro anni, in quanto questa ha permesso loro di attingere a un enorme afflusso di capitali tramite sponsorizzazioni, accessi, visite degli utenti e conseguente pubblicità, senza mai preoccuparsi della portata delle affermazioni nei post, che hanno costellato l’intera durata del mandato presidenziale».
Tradotto in soldoni? Soldi, per l’appunto.
Sebastiano Flaminio continua la propria interessante dissertazione in termini più strettamente giuridici, legati anche alla realtà del nostro Paese, particolarmente significativi e la cui lettura è certamente raccomandata agli addetti ai lavori.
L’interesse di chi scrive è catturato ora da un’altra pubblicazione, relativa al medesimo tema. Si tratta di Social è responsabilità! Le questioni aperte dallo scontro tra le piattaforme digitali e Trump, scritto da Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia e responsabile nazionale della comunicazione elettorale e Internet all’interno del partito, ed edito in formato digitale da Pensiero Solido. Quasi un instant book, eppure no. Perché condensa in realtà temi che sono in sospeso da tempo e che non riguardano, affatto, solo l’ex presidente degli Stati Uniti, pur prendendone le mosse. Riguardano tutti noi.
Infatti, come riportava Palmieri nel mese di aprile, all’uscita del libro, occorre assolutamente «Uscire dalla “logiche del momento”. Sono passati poco più di tre mesi dai fatti di inizio gennaio. Un tempo forse sufficiente per affrontare molte delle questioni emerse a causa di quanto è successo: questioni con le quali avremo a che fare per molto tempo a venire. Per questo è necessario ampliare lo sguardo, per non cadere nell’errore dal quale ha messo in guardia il docente di economia dei media digitali all’Università Carlo Bo di Urbino Giovanni Boccia Artieri: Impostare la discussione #deplatformtrump sul tema libertà di espressione o su “allora voi sostenete un fascista” è sbagliato. Il problema è più profondo. Riguarda il rapporto tra noi e le piattaforme e tra queste e la posizione assunta nel dibattito pubblico (@gba_mm, 9 gennaio)».
Riguarda noi, tutti noi.
È indispensabile comprendere come un personaggio pubblico dalle risorse economiche pressoché illimitate possa semplicemente infischiarsene del ban dei social. Non è del tutto vero, ma si può pensare che in parte lo sia. Chi senza social ora sarebbe muto è in realtà il cittadino comune, la persona qualsiasi, senza agganci o “santi in Paradiso”. Forse che qualcuno non ha usato i social per far sentire la propria voce arrabbiata, quando un giusto reclamo per un disservizio non ha sortito effetti? E forse, come per magia, dopo la “pubblicità” negativa sui social non è giunta la chiamata conciliante e conciliatoria del servizio clienti? Si tratta, evidentemente, del livello base. Ma si passa ormai, sempre, da lì.
Antonio Palmieri raccoglie numerose opinioni interessanti e sottolinea soprattutto come sia «[…] impensabile affidare allo Stato o al governo di turno il controllo della moderazione dei contenuti. È impensabile tecnicamente, e soprattutto, lo è politicamente. In una democrazia compiuta è impossibile affidare al potere politico la scelta di cosa può essere detto o non detto o di chi può avere il diritto di parola».
Impazza su ogni piattaforma, di questi tempi, la polemica accesa fra cosiddetti pro-vax, no vax, pro-Green Pass e no-Green Pass. Il tema è, naturalmente, l’ormai famigerata carta verde che garantirebbe accessi e sicurezza pure in tempi di pandemia. Anche «iFamNews» se ne è occupata e continuerà a occuparsene, con sobrietà e buon senso, alla ricerca di un giudizio che sia reale e non “di pancia”.
Ebbene, chi darebbe voce per esempio a questo dibattito, qualora le voci di alcuni fossero davvero silenziate sulle piattaforme social, attuale e indispensabile agorà virtuale? Sarebbe il caso di domandarselo, poiché, come recita il vecchio adagio, “oggi a me, domani a te”.