La giurisprudenza iberica si conferma piuttosto solida nella contrarietà alla surrogazione, pur senza vietarla esplicitamente. A nove anni di distanza da un pronunciamento analogo, la Suprema Corte spagnola ha ribadito essere nullo qualunque contratto in cui una donna acconsentae di affittare il proprio utero per portare in grembo un bambino destinato ad altri.
La prima sezione della Corte, in seduta plenaria, ha bocciato la pretesa di una donna che chiedeva di farsi riconoscere madre legale di un figlio partorito da un’altra donna da lei pagata. Il bambino sarebbe nato in Messico, dopo l’intervento di un’agenzia di mediazione, e non ha alcun legame genetico con la “madre intenzionale”.
La Suprema Corte dichiara quindi che il contratto di «gravidanza surrogata» nel caso in esame è pregiudiziale rispetto «all’interesse superiore del minore» e costituisce uno «sfruttamento inaccettabile della donna». Sia il bambino sia la gestante vengono infatti trattati come «meri oggetti», non come «persone dotate sia della dignità che spetta loro in quanto esseri umani sia dei diritti fondamentali inerenti a tale dignità».
Secondo la sentenza, la «soddisfazione dell’interesse superiore del minore» porta al «riconoscimento del rapporto di filiazione con la futura madre che si stabilisce con l’adozione». Tale soluzione soddisfa l’«interesse superiore del minore, come richiesto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo», ma al contempo riesce a «salvaguardare i diritti fondamentali» che anche la Corte ritiene «meritevoli di tutela», per esempio «i diritti delle gestanti e dei bambini in generale».
Donne che diventano schiave
Il contratto di «gestazione per altri» preso in esame dalla Suprema Corte spagnola è dunque nullo ai sensi della Legge 16/2006 sulle «tecniche di riproduzione umana assistita». Un tale negozio giuridico, inoltre, viola la Costituzione spagnola, la Convenzione sui diritti del bambino e la risoluzione del Parlamento Europeo del 17 dicembre 2015.
Fin dalla stipula dell’accordo di surrogazione, infatti, la gestante viene costretta a rinunciare a qualunque diritto legato alla maternità e a sottoporsi a cure mediche che ne mettono a rischio la salute più di quanto non avverrebbe con una gravidanza naturale.
Deve inoltre rinunciare al diritto alla privacy, impegnandosi in modo vincolante a seguire un determinato regime alimentare, e non può decidere se il parto sarà cesareo o naturale. Persino in caso di malattia o di infortunio potenzialmente letali le viene impedito di decidere come curarsi, consegnando così al committente il potere di vita e di morte su di lei.
L’ambiguo cavillo dell’adozione
Individuando l’adozione come requisito per una genitorialità “non biologica”, la Suprema Corte spiega che, con la surrogazione, il diritto del bambino viene violato, in quanto viene meno la procedura volta a verificare l’idoneità a svolgere la potestà genitoriale sul minore. Se si riconoscesse la validità dei contratti di surrogazione, il diritto genitoriale si acquisirebbe in automatico.
Ciò significa che, in linea teorica, non è escluso che un uomo o una donna che prendono in affitto l’utero di un’altra donna non possano diventare genitori legali della creatura concepita con tale metodo. Lo diverrebbero, però, attraverso il successivo passaggio dell’adozione.
Un terreno ambiguo che, in teoria, potrebbe prestarsi a interpretazioni estensive o restrittive, a seconda della sensibilità del giudice. Ancora una volta, dunque, la tutela dei diritti delle donne e dei bambini non sarebbe rimessa alla certezza della legge ma all’ideologia.
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