Last updated on aprile 18th, 2020 at 11:01 am
Il filosofo e sociologo francese Edgar Morin ha commentato così la decisione del premier britannico, Boris Johnson, di non ricorrere a misure di lockdown all’italiana nei primi giorni della diffusione del contagio nel Regno Unito: «Un esempio chiaro di come la ragione economica sia più importante e più forte di quella umanitaria: il profitto vale molto più delle ingenti perdite di esseri umani che l’epidemia può infliggere e sta infliggendo. In fondo il sacrificio dei più fragili (delle persone anziane e degli ammalati) è funzionale a una logica della selezione naturale. Come accade nel mondo del mercato, chi non regge la concorrenza è destinato a soccombere. Applicare alla vita umana questa logica rivela la spietatezza del neoliberismo imperante».
Il privato come reato
In queste poche frasi c’è già tutto: tutta l’ignoranza economica, prima di tutto, l’incapacità di comprendere come ragioni economiche e ragioni umanitarie siano la stessa cosa. L’economia è una scienza umana, studia interazioni fra uomini. Vi possono essere solo due tipi di interazione: volontarie e coercitive. Nelle interazioni volontarie, due persone scambiano per reciproco interesse. In quelle coercitive, una persona impone i propri interessi all’altra, minacciandola di violenza. Il primo (scambio volontario) è il mercato, il secondo (imposizione coercitiva) è lo Stato. Nel mercato non c’entra il darwinismo, non è ammessa la legge del più forte: a caratterizzarlo è lo scambio fra pari. Nello Stato vince invece solo il più forte, perché solo chi controlla il potere può esercitare il potere. In momenti di emergenza come quello che il mondo sta vivendo ora per la pandemia, chi detiene il potere statale lo esercita in modo sempre più arbitrario, convinto che nessuno osi reagire. Qual è la colpa di Johnson, appena uscito dall’ospedale dove ha pure versato in gravi condizioni? Gli viene rimproverato di non avere usato abbastanza violenza per essersi limitato (con buona pace di Morin) a proteggere anziani e malati, separandoli dalla società, ma permettendo a molte più categorie di adulti lavoratori e di studenti di continuare a vivere liberamente, pur vietando grandi assembramenti.
In Italia si pensa al contrario che solo lo Stato sia necessario per risolvere un’emergenza, mentre il privato diventa “pericoloso”: pericolosa è la Sanità privata, pericolose sono le aziende che vogliono riprendere a lavorare, pericoloso è il singolo cittadino che esce per una passeggiata. E quindi si vieta progressivamente tutto ciò che è volontario. In Umbria la CGIL si vanta di aver convinto la Regione a vietare i test diagnostici CoViD-19 condotti nelle strutture private, perché «la salute viene prima del profitto!», come si legge nel comunicato trionfante. Chi non potrà più effettuare un test presso una struttura privata dovrà mettersi in coda in quella pubblica, potrebbe essere malato e non saperlo, contagiare molte altre persone. Ma la “salute” non viene prima del “profitto”? Nelle altre regioni italiane, con poche timide eccezioni, i test sono monopolio dello Stato. Domandiamoci perché, poi, contrariamente alla Corea del Sud, dove effettuano test a tappeto enti sia pubblici sia privati, il nostro Paese ha perso il controllo della massa di infetti asintomatici.
Ritardi, burocrazie e miopie
Nella “perfida Albione” di Johnson, aziende private come la Dyson, contattate direttamente dal premier britannico, sono riuscite a progettare e mettere in produzione equipaggiamenti nuovi per la terapia intensiva in dieci giorni. Negli Stati Uniti, terra del “capitalismo predatorio”, grandi aziende automobilistiche come Ford e General Motors, spronate dal presidente Donald J. Trump, stanno producendo ventilatori polmonari per la terapia intensiva. E in Italia, dove invece prosegue indefessa la lotta contro il profitto? In Italia si ha un’agenzia unica per gli acquisti, la Consip, che fa gare “accelerate”, ma che restano sempre procedure burocratiche lente. Tanto che alle terapie intensive non arrivano i ventilatori polmonari richiesti. Si hanno ditte che producevano già respiratori “scoperte” dalla nostra Amministrazione pubblica solo a inizio marzo. Non solo gli equipaggiamenti più sofisticati: anche le semplici mascherine e i device di protezione individuale per i medici scarseggiano perché la burocrazia nazionale, con le sue ferree regole contro il mercato, impedisce di importarle, come hanno amaramente constatato alcuni imprenditori che ci hanno provato. E produrle in proprio, le mascherine? Peggio che andar di notte: al 4 aprile, ovvero a un mese e mezzo dall’inizio dell’epidemia in Itralia, su 447 aziende che si sono mostrate disponibili per una riconversione della produzione solo 30 hanno ottenuto l’autorizzazione a produrre mascherine ed equipaggiamenti protettivi. Produrle, ma non ancora distribuirle. In Lombardia, in compenso, la costruzione di un ospedale nuovo alla Fiera di Milano, in poco più di una settimana, è stata resa possibile grazie alle donazioni di privati. Si spera solo che la procura milanese non apra un’inchiesta su eventuali procedure violate, come ormai si è abituati a vedere dopo la costruzione di ogni opera pubblica.
Ragioni economiche contro ragioni umanitarie, dunque? C’è da domandarsi, piuttosto, quanto lo Stato sia di ostacolo alle ragioni umanitarie. Da domandarselo e da darsi una risposta in fretta, prima che muoiano altre migliaia di persone.
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