Ridicolo strumentalizzare la Bibbia per giustificare l’«utero in affitto»

Il nostro mondo ne inventa più di Bertoldo, addirittura scomodando Abramo per sdoganare i propri capricci. Dialogo con Simona Riccardi, autrice di «Agar e Sara. Madri nella fede»

Agar e Sara

Agar e Sara

Last updated on Agosto 5th, 2021 at 04:00 am

Uno dei modi più curiosi per giustificare l’utero in affitto è brandire le Sacre Scritture. Secondo alcuni fautori di questa pratica nella Bibbia si ravviserebbero le tracce di una maternità surrogata ante litteram. Il dito di costoro scorre tra i capitoli 16 e 21 del libro della Genesi. È là, nella vicenda della schiava Agar che dà alla luce Ismaele per dare discendenza ad Abramo, che si troverebbe la primizia biblica di quello che oggi conosciamo come «utero in affitto». Eppure non bisogna essere fini teologi per riconoscere che l’«utero in affitto» ha ben poco a che vedere con Agar, con Abramo e con sua moglie Sara. Lo spiega ad «iFamNews» Simona Riccardi, autrice di Agar e Sara. Madri nella fede, un romanzo avvincente strutturato in forma di monologhi in cui i tre protagonisti ripercorrono la propria vicenda umana.

Chiariamo subito: il caso di Agar e Abramo è da considerarsi più un caso di adulterio o un caso di «maternità surrogata»?


Né l’uno né l’altro. Direi che si è di fronte a un caso sui generis, difficile da inquadrare tanto nell’una quanto nell’altra categoria. Se proprio si volesse trovare un’etichetta entro cui collocare l’episodio, lo si potrebbe definire un “adulterio indotto” dalla stessa Sara, la quale spinge Agar tra le braccia di Abramo onde poter ottenere, per tramite della schiava, una discendenza da offrire al marito.

Ma è qui che appunto si insinua chi traduce con «maternità surrogata»…


No, non è affatto «maternità surrogata» dal momento che non esiste un accordo tra le due donne. Agar, in quanto, schiava non può far altro che obbedire all’imposizione della padrona, ma il rapporto con suo figlio Ismaele non potrà mai essere reciso. Evidentemente, però, le leggi umane di quel tempo, che consentono questa pratica, non corrispondono alle leggi divine: questa soluzione, tutta umana, non va infatti nella direzione sperata da Sara. Dio dimostra cioè di avere un progetto ben diverso per chi, alla fine, ne saprà aspettare i tempi.

Il rapporto tra Agar e il figlio Ismaele non viene appunto reciso al contrario di quanto invece succede alle «madri surrogate» di oggi. Si può dire che questa è una differenza determinante?


Certamente, la differenza è netta. Ismaele continua a essere il figlio di Agar, non solo perché da lei non verrà mai separato, ma anche perché, di fatto, neppure Sara potrà mai sentire Ismaele come figlio proprio. Nel mio romanzo evidenzio questo aspetto attingendo alla sofferenza che la padrona avverte chiaramente quando si rende conto di non riuscire a provare amore per quella creatura su cui vede impresso il marchio del disonore e dell’impazienza. La dimostrazione che il legame tra la presunta «madre surrogata» e il figlio che ella porta in grembo per nove mesi non possa essere reciso sta nell’allontanamento tanto dell’una quanto dell’altro, allorché la convivenza tra le due donne e la loro progenie si farà insostenibile. Agar, insieme al proprio bambino, riacquista così la libertà. È curioso come oggi qualcuno prenda come riferimento legittimante le Sacre Scritture e, nello specifico, la storia di una schiava, per giustificare la pratica della «maternità surrogata», che è una forma di nuova schiavitù e di sfruttamento del corpo femminile atto solo a soddisfare un desiderio altrui di genitorialità attraverso il denaro.

Insisto, apposta, se me lo concede. Ravvede comunque una qualche affinità se non altro culturale, o di atteggiamento mentale, tra la consuetudine ebraica di allora, di cui Abramo si avvale nella Bibbia per garantirsi una discendenza, e il fenomeno odierno dell’«utero in affitto»?


Credo piuttosto che, a livello culturale, vi siano differenze sostanziali. A quell’epoca l’essere sterile era, per una donna, una maledizione vera e propria. Significava avere su di sé non solo la riprovazione sociale, ma anche quella divina. Una donna poteva realizzarsi solo attraverso la propria discendenza. Oggi non è più così. Al resto del mondo poco importa che si scelga di avere o no dei figli, che si possa concepire oppure no, che ci si interroghi sul proprio reale desiderio di maternità. Per quanto persistano dei condizionamenti sociali, la scelta di avere un figlio diventa piuttosto una decisione personale. Quando il desiderio si fa forte, ma, come nel caso di Sara, non si riesce a coronarlo, esistono soluzioni ben diverse e pienamente morali rispetto al freddo concepimento in vitro, al ricorso a tecniche di tipo eterologo o, peggio ancora, allo sfruttamento di donne che, in cambio di denaro, si trasformano in incubatrici.

Quali riflessioni sul tema della famiglia offre l’intreccio tra Abramo, Agar e Sara?


La vicenda di Abramo, Agar e Sara testimonia i rischi che si corrono quando si pensa di poter fare da soli, sostituendosi a Dio in ciò che ha a che fare con la trasmissione della vita. Quando il patriarca e la sua sposa si allontanano dal sentiero tracciato, e sovvertono le relazioni all’interno della famiglia, non incontrano altro che confusione e sofferenza. Solo nel momento in cui si abbandonano alla volontà divina, mettendo da parte l’egoismo e la superbia di chi confida solo nelle forze proprie, arriva il figlio tanto atteso della Promessa a far germogliare il ramo secco della sterilità. Ecco che un figlio non è più un diritto dei genitori, ma si fa dono di Dio. Questo è ciò che la Bibbia insegna narrando quella vicenda: lo si può accettare, lo si può rifiutare, ma certamente non si può fare dire alla Bibbia ciò che la Bibbia non dice.

Agar e Sara: a quale dei due personaggi lei si sente più legata?


Inizialmente avrei detto ad Agar per il suo carattere indomito. La schiava è una guerriera, si piega senza spezzarsi sotto il peso della fatica e dei maltrattamenti, fugge e combatte contro il deserto, ritorna dalla padrona dopo essere cambiata nel profondo, grazie all’incontro con il Vivente. Ma poi, procedendo nella scrittura del mio romanzo, ho cominciato a comprendere Sara e ad amarla per tutte le sue debolezze e le sue ferite, così come per la sua perseveranza nella fede. Direi che la forte immedesimazione è forse proprio una caratteristica di questo romanzo che prende per mano il lettore e lo introduce nella psiche e nel cuore delle due donne, facendolo sentire a volte Agar e a volte Sara.

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