Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:01 am
In Gran Bretagna il miraggio dell’aborto “casalingo”, ottenuto attraverso la banalità del male di una “kill pill”, potrebbe tramontare grazie all’impegno delle organizzazioni pro life e di molti parlamentari Conservatori.
Il 6 luglio è infatti andato in scena alla Camera dei Comuni di Londra l’ultimo atto della tragedia dell’aborto “fai da te” che era stato introdotto con una norma di emergenza il 30 marzo quando il ministro della Salute britannico, Matt Hancock, aveva deciso di consentire, a causa del CoViD-19, l’aborto in casa fino alla 10 settimana di gestazione mediante il solo semplice obbligo di controllo e verifica per via telematica o telefonica. Su questa base, per iniziativa del deputato Laburista Diana Johnson, e su pressione dei provider internazionali Marie Stopes e BPAS, appunto il 6 luglio sono stati presentati due emendamenti alla nuova legge contro gli abusi domestici che avrebbero non solo reso permanenti le norme “eccezionali” sulle pillole abortive, ma anche alterato in modo devastante la stessa legislazione sull’aborto varata nel 1967, tra l’altro abolendo l’obiezione di coscienza ed estendendo da 24 a 28 settimane il periodo di gestazione in cui l’aborto sarebbe stato consentito.
Eppure, come rileva un sondaggio, il 70% delle donne britanniche è favorevole a una riduzione dei termini di liceità dell’aborto a meno di 24 settimane.
Come si è riusciti a impedire che ciò accadesse? Right to Life, e diverse altre organizzazioni per il diritto alla vita attive del Regno Unito, non si sono risparmiate per mobilitare l’opinione pubblica e la stampa, denunciando i pericoli sia degli emendamenti proposti sia della modalità utilizzata.
Inoltre l’associazione di avvocati Christian Concern ‒ guidata da Andrea Williams, premiata al World Congress of families del 2015 ‒, attivissima sul fronte giuridico in difesa di vita, famiglia, matrimonio e libertà di educazione, ha visto dapprima, il 29 giugno, accolto il ricorso presentato alla Corte di appello di Londra contro la regolamentazione eccezionale in tema di aborto in tempo di CoViD-19. Quindi, e attraverso una indagine, svolta sotto copertura ed esplosa sulla stampa britannica il 5 luglio, ha svelato gli abusi e la violazione perpetrata dai maggiori provider di aborto sia del Paese sia internazionali operanti nel Regno Unito degli stessi obblighi previsti dalla “regolamentazione eccezionale”. In almeno un caso vi sono prove che gli operatori delle due multinazionali dell’aborto non abbiano né seguito le norme obbligatorie né eseguito le previste verifiche di legge prima di inviare le pillole abortive alle donne richiedenti.
Ebbene, in questo contesto, e grazie alle molteplici dichiarazioni sia di deputati sia di rappresentanti del governo, la lunga seduta iniziata alle 16.40 e terminata alle 23.00 ha visto dichiarare dapprima estraneo alla materia l’emendamento 29 relativo all’estensione dell’aborto sino al settimo mese eliminando l’obiezione di coscienza, poi ritirare l’emendamento 28 che avrebbe reso permanenti le norme eccezionali sull’aborto chimico.
Il Sottosegretario agli Affari interni, Victoria Atkins, e il ministro della Giustizia, Robert Buckland, appoggiati da moltissimi parlamentari Conservatori, hanno sostenuto con forza sia l’estraneità degli emendamenti abortisti dalla materia trattata sia la loro contrarietà a essi. In particolare, sull’ipotesi di rendere permanenti le nuove regolamentazioni per l’aborto chimico, è stato affermato che «la norma sarà valida sino a quando la “consultazione pubblica” promossa dal governo non sarà terminata», cioè nelle prossime settimane, «e solo allora il governo prenderà una decisione definitiva sulla procedura emergenziale». Una vittoria, dunque, per la vita nel Regno Unito.
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