Last updated on Agosto 12th, 2021 at 11:03 am
La civiltà occidentale “sarebbe” quel tipo di sistema in cui la cultura non esprime più alcun senso critico e valoriale rispetto alla società: ogni cosa viene inserita e assorbita dal sistema di produzione e consumo. È questa, in sintesi, la tesi espressa quasi settanta anni fa dal filosofo tedesco Herbert Marcuse (1898-1979), il più freudiano dei marxisti.
Dopo la fine della cosiddetta «Guerra Fredda» (1947-1991), due sole visioni sembrano smentire questa tesi: l’ecologismo vissuto come “religione” e la sovversione antropologica basata sulla revisione e sulla negazione dell’identità di genere maschile e femminile. Ora, questa seconda prospettiva ha sviluppato, a partire dal Sessantotto, un “compromesso ideologico” con alcuni aspetti della critica marxista all’Occidente cresciuto fino a costituire la matrice della fase attuale della rivoluzione che le “teorie gender” tendono a realizzare nel concreto. Tuttavia il presupposto di questa matrice potrebbe essere una concezione distorta della famiglia e della autorità.
La famiglia come autocastrazione dei desideri erotici
Tra Ottocento e Novecento la critica marxista alla società borghese e a certe (presunte) strutture di potere pone fra i propri bersagli principali la famiglia.
Già prima dell’avvento dell’ideologia gender, la famiglia naturale doveva essere messa in discussione come espressione contemporanea del protrarsi di un “antico regime” assolutistico, incentrato sul “padre padrone” (definito “borghese” nel suo aspetto economico). La famiglia e il ruolo del padre diventano così il prototipo di ogni legge, naturale e sociale. Chiave di questo slittamento ideologico, dalla critica sociale a quella familiare, è il connubio fra la tradizione marxista occidentale e le conclusioni a cui giunge il pensiero del fondatore austriaco della psicoanalisi Sigmund Freud (1856-1939). L’elaborazione di Marcuse diventa centrale esattamente qui.
È infatti di matrice psicoanalitica la presunzione teoretica di ripensare l’intero sviluppo delle civiltà umane come l’effetto di una stratificazione doppia: stratificazione sociale di sentimenti inconsci di solidarietà e stratificazione religiosa di traumi rimossi, dovuta a relazioni familiari ataviche.
Freud ricupera, cioè, l’ipotesi dell’origine dello Stato propria del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679): un’ipotesi filosofico-politica, secondo cui gli uomini stilerebbero un contratto sociale – necessario e logico – per uscire dalla condizione di inimicizia e di paura in cui naturalmente sono altrimenti immersi, subordinando le libertà personali all’istinto di autoconservazione. Nel modello hobbesiano, insomma, gli uomini accettano di sottomettersi volontariamente al potere coercitivo assoluto del Leviatano.
Ebbene, accogliendo di fondo questo modello, Freud apporta due modifiche: interpreta la bramosia naturale che determina l’inimicizia e il conflitto in chiave esclusivamente erotica e valuta come non razionale, bensì inconscio, il processo di rinuncia alle prerogative personali operato per ottenere la pacificazione morale e giuridica (sociale e politica). La famiglia sarebbe quindi niente altro che la forma codificata del potere sessuale che il maschio accetterebbe di esercitare solo su una donna con cui già non ha legami di parentela.
Dio come nevrosi: il surrogato sociale del Padre Padrone
Vi è però un secondo livello, ancora più recondito, della questione: quello da cui sorgerebbe la religione con la riproposizione dei conflitti familiari tra i figli e l’autorità assoluta che il padre eserciterebbe nella condizione pre-sociale. Secondo Freud, infatti, la nascita delle società primitive sarebbe stata successiva e alternativa a una organizzazione tribale plurisecolare. All’interno di un determinato gruppo umano, afferma Freud nel saggio L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), un singolo maschio vantava sia il potere erotico su tutte le femmine sia l’inimicizia profonda verso gli altri maschi, a partire dai propri figli. Il destino di questi ultimi era dunque o la morte o l’espulsione sociale. Quest’ultima avrebbe poi generato la vendetta contro il padre e di conseguenza, una volta abbattuto il padre, la ripetizione imitativa del potere erotico assoluto da lui precedentemente esercitato sulle femmine del gruppo: e così fino al lento sviluppo dei sentimenti di solidarietà, che avrebbero finalmente comportato il sacrificio inconscio della pretesa sessuale assoluta maschile sulle femmine.
Il freudismo spiega dunque la nascita della famiglia e della società come misura di auto-contenimento sessuale e di pacificazione, e quindi istituite come “morte del Padre” e sacrificio erotico collettivo, laddove la religione, da quella totemica fino al monoteismo, altro non sarebbe che la riproposizione inconscia di un trauma rimosso: un mix emotivo di odio/ammirazione/invidia/timore da parte dei figli maschi nei confronti del potere paterno, che avrebbe determinato in modo ciclico il «parricidio cannibalesco» e la reiterazione del ruolo del padre da parte del figlio più forte. E tutto ciò continuerebbe fino, appunto, all’avvento della forma essenziale e totalitaria di oppressione e di castrazione del desiderio: vale a dire la famiglia fondata sul matrimonio e la prospettiva religiosa che a essa fa da complemento.
La rivoluzione sessuale e le teorie gender coerenti e conseguenziali avrebbero, allora, il fine di de-costruire ogni forma di autorità, di legge, di ordine sociale e di struttura familiare, giacché oppressive, per ricuperare, in modo anarchico e illimitato, gli antichi desideri erotici da realizzare in una nuova armonia collettiva, democratica e tollerante.
Con la conseguenza che chi non obbedisse al diktat di questa ricostruzione ideologica freudiano-marxista verrebbe bollato come «nemico del popolo».
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