Last updated on Maggio 19th, 2020 at 05:06 am
Anche oggi, come ogni giorno ormai dal 10 marzo, mi sono ritrovato a pranzo con mia moglie e mio figlio. Rinchiusi in casa in quarantena. Nel giro di pochissime ore, un ingordo killer ci ha sottratti alla nostra quotidianità, mettendoci tutti in scena su un palcoscenico inflessibilmente domestico. Ma il mio pranzo con la mia famiglia di oggi, meraviglioso momento della vita, mi ha riportato al pranzo con la mia famiglia di un altro tempo, quella delle mie origini a Gerace. Quel pranzo ha costellato tutta la mia adolescenza. E oggi mi è apparso come in uno specchio. Un ricordo incantevole che mi ha fatto inspirare il profumo di un’essenza riposta ma non perduta e che ha inondato il paradiso della mia adolescenza. Non c’è stato sforzo dell’intelligenza. Dopo quasi trentasei anni, ho ritrovato quel passato involontariamente. Senza alcun tempo nel mezzo.
Se mi sono commosso? Sì, mi sono commosso. E mi sono sentito felice improvvisamente. Mentre poco prima di iniziare ero oppresso dalla giornata grigia, dalle incessanti notizie di morte, dall’idea di un domani incerto, ho assaporato, con toccante emozione, il ricordo di quando rientravo, tutti i giorni, all’ora di pranzo dal liceo.
Il bel Palazzo di Città, che ospitava la mia scuola a Locri, si trova al centro dell’abitato. Era a me particolarmente caro, perché alla posa della prima pietra, nel giugno del 1880, prese parte il mio bisnonno, Giuseppe Spanò. Quell’edificio è stato anche sede della Corte di Assise penale, dove Alberto Spanò, mio prozio, è stato per svariati anni Presidente.
Appena suonava la campanella mi recavo con passo spedito verso la piazza della stazione ferroviaria. Era lì che prendevo il pullman, sempre lo stesso ‒ il mitico Fiat 640 Viberti ‒, che raccoglieva tutti gli studenti geracesi che provenivano dalle varie scuole poste sulla costa: a Locri, Siderno, Gioiosa Marina. Ed era lì che mi ricongiungevo con i miei fratelli e i miei cugini. Si rientrava a casa. Il pullman era strapieno. Il viaggio verso Gerace durava circa mezz’ora. Lungo i tornanti che ci portavano in alto, il gemito del motore sembrava avere qualcosa di umano, che si placava sfinito al capolinea di piazza del Tocco.
Poi, a piedi, la strada mi portava alla chiesa dell’Addolorata che, incastonata alla mia casa, costeggiavo. E dal suo ingresso raggiungevo il mio. Il grande portone verde di via Diaz mi attendeva. Faceva bella mostra un battente a forma di S (a rammentare l’iniziale del cognome di famiglia), che martellavo solo nelle circostanze in cui il campanello elettrico si trovava fuori uso. E ogni giorno era uguale. Antonio aperto il portone comunicava a mia madre a voce alta: «I ragazzi sono arrivati». Attraversavo il piccolo giardino, la grande sala e poi la scala per raggiungere la mia stanza.
Sentivo il buon profumo che proveniva dalla cucina “che a tratti s’alza ancora in me non meno intermittente e caldo” e, mentre lasciavo lo zaino in cameretta e mi lavavo le mani, cercavo di farmi un’idea delle pietanze che mi attendevano. Prima di entrare in sala da pranzo, percorrevo un corridoio che incrociava la cucina e lì ‒ nella cornice della sua porta ‒ sostava immobile Antonio con il suo grande grembiule ad accoglierci con un sorriso che anticipava la gioia di stare tutti insieme.
Tutta la famiglia si raccoglieva ogni giorno a tavola, come da sempre. Tovaglia bianca, piatti in ceramica bianchi, posate e bicchieri sempre gli stessi. Una bella brocca per l’acqua e l’immancabile ed elegante bottiglia di vino rosso color rubino, rigorosamente proveniente dalla cantina Spanò. Il fuoco del caminetto, acceso fin dal mattino, pennellava di una patina di fuliggine tutta la sala, espandeva odori di un’invisibile poesia. Puntuali come un orologio, arrivavano a tavola squisite e soavi pietanze, che con la supervisione di mia madre venivano preparate da Antonio. La bella cucina alimentata a legna pareva il tempio di Persefone, traboccante delle primizie dei nostri campi, delle offerte dei coloni e del lattivendolo.
Si iniziava sempre con una verdura condita al piatto (tradizione questa che ‒ apprezzata da mia moglie Francesca ‒ ritrovo ancor’oggi), anch’essa come l’olio provenienti dagli orti della mia famiglia. Poi la pasta. E immancabile è il ricordo della pasta al forno con la besciamella, così grassamente sensuale, ricoperta dalla crosticina dorata e croccante, con l’interno morbido e filante, profumato dalla noce moscata. Mi rimane ancora il sapore. Il ricordo lo fa tuttora gustare. Un piacere delizioso m’aveva invaso, come dice, in un famosissimo passaggio, lo scrittore francese Marcel Proust (1871-1922): «l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo».
Mio padre era seduto sempre al capo della tavola. Apriva il pranzo osservandoci tutti. Dopo qualche minuto, si proseguiva con qualche riflessione sulla giornata scolastica, qualche risata, qualche discussione e il resto. Il televisore non aveva residenza in camera da pranzo, rimaneva spento e stava in altra stanza. Concluso il pranzo si tornava tutti a studiare. Ogni giorno così. Tempo per rivivere con la stessa immensa emozione insieme ai miei cari la bellezza della famiglia, la convivenza dei tempi giusti, umanizzazione del nostro tempo.
Condivido questo vissuto familiare odierno, ai tempi del coronavirus, con tutti voi lettori immaginando di porgervi un’immagine positiva che ci suggerisca di apprezzare i momenti ora trascorsi con le nostre famiglie. Il suo valore è inestimabile. È amore per il nostro quotidiano più intimo. E il ricordo di questo tempo ci scaldi – un giorno – di nuovo il cuore.