Last updated on Dicembre 10th, 2021 at 08:58 am
Risale al 24 marzo l’interrogazione parlamentare del senatore Tommaso Nannicini, del Partito Democratico, che domanda al ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, di «intervenire per porre fine alle discriminazioni di cui sono vittime le nostre figlie/figli trans, valutando così l’opportunità di attivare in tutte le Scuole la “carriera alias” per studenti trans».
La “carriera alias”
Al ministro dell’Istruzione si domanda cioè la possibilità di attivare un «accordo di riservatezza tra Scuola studente trans e famiglia (nel caso di studente minorenne), attraverso cui la persona trans, anche piccola, chiede di modificare nel registro elettronico il nome anagrafico con quello di elezione».
Promuove e sostiene la proposta l’associazione Genderlens, che riunisce «tutte le persone che hanno figliǝ gender creative, ma anche tuttǝ coloro che semplicemente condividono l’obiettivo di Genderlens: tutelare l’infanzia e l’adolescenza trans e le loro famiglie», la schwa è d’obbligo.
L’attivazione della «carriera alias» viene considerata una «buona prassi» che eviterebbe «a queste o queste/i studenti il disagio di continui e forzati coming out e la sofferenza di soffrire possibili forme di bullismo». Si tratterebbe, ovviamente, di un punto di partenza: i promotori, infatti, fanno riferimento anche «all’uso concordato di spazi sicuri (bagni, spogliatoi, etc.)» e alla necessità di una comunicazione non sessista, di una formazione specifica per docenti e personale ATA e di educazione delle classi «all’affettività, alla sessualità e al rispetto di ogni differenza». Non mancano gli esempi già in atto.
Fondamentale, per i richiedenti, è che «nessuna certificazione medica/psicologica deve essere richiesta dalla Scuola e neppure presentata dalla/dallo studente trans o dalla famiglia/tutore» in quanto «la varianza di genere non è una malattia ma una espressione sana delle tante possibilità del genere umano».
Le origini culturali della richiesta
Sottolineando come «il bisogno di riconoscimento è uno dei bisogni umani primari» e sostenendo che «la percezione di una propria identità di genere non rispondente a quella assegnata può manifestarsi in età molto precoce, già nella prima infanzia, o più avanti nell’adolescenza» – e su quest’affermazione ci sarebbe già da discutere – la richiesta di tali Linee guida specifiche poggia sull’affermazione secondo la quale il disagio, il disorientamento, la disistima e le altre forme di sofferenza non sarebbero legate «alla varianza dell’identità di genere in quanto tale, ma all’assenza di riferimenti culturali, sociali e politici adeguati in famiglia e a scuola».
Ci sarebbero dei dati «agghiaccianti» – ma le fonti non sono citate – secondo i quali «le e gli studenti trans hanno il più elevato tasso di abbandono scolastico e questo non riconoscersi nella norma che la famiglia e la società si aspetta da loro è un accumularsi di sofferenze e disagi (che possono manifestarsi con depressioni, autolesionismo e atti suicidari, disturbi del comportamento alimentare e altro), talvolta seguito dal ritiro sociale (è in crescita il fenomeno degli Hikikomori)».
Per questo le scuole, che dovrebbero sentire il dovere di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3 della Costituzione Italiana), dovrebbero riconoscere come «ostacolo di ordine sociale» quello che viene considerato un mancato riconoscimento «della persona e della sua identità percepita, quando questa non corrisponde a quella assegnata alla nascita in base al sesso biologico».
La realtà oltre l’ideologia: linee guida, la sola speranza?
Mentre le Linee guida ministeriali per la «carriera alias» sono ancora una mera proposta, ci sono scuole che si sono già attivate, usufruendo delle competenze attribuite dalle norme nazionali in materia di autonomia scolastica: ne è un esempio l’Istituto Cerboni dell’Isola d’Elba, che ha già formalizzato nel Regolamento Scolastico la possibilità di attivare la «carriera alias». Si tratta di un evento significativo, perché fino a ora in Italia solo nelle università tale procedura era formalizzata nello Statuto di Ateneo, nelle altre scuole la scelta di attivazione è sempre dipesa «dalla sensibilità della dirigenza scolastica». Questo, secondo Genderlens, creerebbe disparità di trattamento, nei diversi istituti scolastici, generando discriminazione per gli studenti «non sostenuti dalle loro scuole».
Partendo dal presupposto che ogni singola scuola, ogni singolo docente e operatore scolastico dovrebbe avere come prima preoccupazione il bene di ogni singolo studente, a partire proprio da quell’esigenza di “riconoscimento” che forse viene prima e va oltre la stretta definizione del suo orientamento sessuale, come è possibile immaginare che tale preoccupazione venga “imposta” grazie a Linee guida ministeriali? È davvero una ennesima, sterile e impersonale documentazione l’unica speranza cui siamo in grado di rivolgerci, di fronte a drammi come l’abbandono scolastico, l’autolesionismo, gli atti suicidari? Magari fosse così facile.
D’altra parte, si potrebbe argomentare, si tratta solo di uno spunto, di un’iniziale presa di consapevolezza, che potrebbe incentivare uno sguardo “umano”. Se così fosse, però, che dire di tutti gli altri? Di quegli studenti che non hanno problemi con la propria identità sessuale, ma si trovano a combattere con il sovrappeso, con un disturbo specifico dell’apprendimento, con l’acne, con la forma del naso, la circonferenza delle caviglie? E per tutti coloro che vivono altri tipi di disagio: ristrettezza economica, separazione o divorzio dei genitori, fragilità emotiva, o problemi di salute, sbalzi ormonali, fallimenti sportivi, lutti? Perché, a maggior ragione se «essere trans non è una malattia (l’O.M.S. il 18 giugno 2018 ha tolto la transessualità dall’elenco delle malattie mentali)», un regolamento “speciale” solo per gli studenti che vivono questa particolare condizione, una tra le tante particolari condizioni di disagio sperimentate dai giovani?
Si tratterebbe allora, forse, di stilare linee guida che tengano conto di ogni singola possibile fonte di sofferenza di ogni singolo studente? Stabilire comportamenti e linguaggi standardizzati perché nessuno si senta a disagio, offeso, discriminato?
Qual misera speranza, in un mondo che sogna «sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe bisogno di essere buono» (T.S. Eliot, La Roccia).
Vediamo che futuro avrà questa proposta.