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Pubblichiamo l’orazione funebre che il prof. Allodi ha pronunciato alle esequie del prof. Gianfranco Morra (1930-2021), celebrate il 31 maggio 2021 nella Chiesa del Suffragio di Forlì
«Der Mensch…ein kurzes Fest auf der Erdea» ‒Max Scheler
Ho ancora vivido, negli occhi, il giorno di quella prima lezione. Era l’autunno del 1975 e il clima a Scienze Politiche di Bologna era oltremodo surriscaldato, quasi irrespirabile. Da lì a poco sarebbe scoccato il fatidico “settantasette”, con i cento attentati incendiari in una sola notte (a Padova) e poi gli “indiani metropolitani”. Il numero elevato di matricole aveva costretto la Facoltà a trovare una grande aula in via San Vitale. Due ore intense, delle quali conservo il ricordo di un entusiasmo sconosciuto, di una inquietudine salutare nella quale si delineava un compito, il senso di una ricerca, per la quale valeva la pena rischiare tutto nella propria vita. Qualcosa in radicale contrasto con quel clima esterno, gravido di fanatismo e di intolleranza, che ti avvolgeva appena varcavi l’uscita dell’aula. Il senso di un costruire, la calma e la gioia provata quando ti prende la certezza che hai trovato qualcosa da cui iniziare: ecco ciò che trovai in quella aula in quella “prima lezione” di Gianfranco Morra. La lezione terminò con un insistito applauso. Morra era conosciuto come un pensatore di orientamento liberal-conservatore (forse più conservatore che liberale). L’eleganza del vestire, i suoi cappelli, il mantello d’altri tempi, indossati con assoluta naturalezza, costituivano una provocazione. Mai mi sarei aspettato che da quell’aula potesse levarsi qualcosa come un applauso, una esplosione liberatoria. Una grande “maggioranza silenziosa” si faceva sentire forse per la prima volta e si riprendeva uno spazio a lungo negato da una minoranza organizzata e violenta.
In quegli anni Gianfranco Morra fece parte di un piccolo drappello di intellettuali (Augusto Del Noce, Sergio Cotta, Nicola Matteucci, Elémire Zolla, Cristina Campo e non molti altri) che scelsero la forma di una resistenza civile di fronte ad un paese che si stava imbarbarendo ed una Università che stava smarrendo la sua funzione educatrice.
Mi ero affacciato all’Università con un bagaglio di letture e autori a lungo citati nel suo Breviario di un pessimista. Platone in particolare, e poi, con un grande salto, A. Schopenhauer e S. Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, Carlo Michelstaedter e Giuseppe Rensi, ma anche Oswald Spengler, insieme agli esponenti migliori della rivoluzione conservatrice europea: Hofmannstahl, Rilke, Valéry, Mann, Pirandello, Ortega y Gasset, Berdjaev. Fu l’autentica magia e la potenza di pensiero che si sprigionava in quelle sue lezioni che mi fecero comprendere che quello che cercavo non poteva trovarsi nel Kulturpessimismus tedesco e nelle sue varianti gnosticheggianti: era invece vivo e nascosto in quella tradizione filosofica cristiana del “maestro interiore” di cui ormai nessuno più voleva parlare e nella quale invece Morra ci trascinava senza che nemmeno ce ne accorgessimo, ma con la più vivida forza: Agostino, Pascal, Newman, Rosmini, Scheler e Husserl. La Rivista Ethica. Rassegna di filosofia morale, fondata nel 1962, è stata la fucina di una curiosità intellettuale che ha saputo spaziare in tutte le grandi tradizioni filosofiche e religiose interrogate attraverso le inquietudini intellettuali del nostro quel tempo. Come pure la Collana di ascetica e mistica In spirito e verità che Morra fondò diresse per l’editrice Esperienze, contando sui contributi preziosi di Isa. Impossibile non ricordare alcuni titoli di quella Collana: “La preghiera dei Padri Orientali”, “La teologia dei tedeschi” curata da Prezzolini e Faggin, “Il libro dello splendore” curato da Elio e Ariel Toaff, “La lettera al discepolo” di Al-Gazali.
Anche questo fu “Università come Europa”, come suona il titolo di una sua famosissima conferenza, tante volte citata e richiamata. Una linea, un programma per un itinerario intellettuale riversato in indimenticabili lezioni, in innumerevoli pranzi filosofici, in simposi, in una “eredità”. Senza i quali la vita di molti di noi non sarebbe stata la stessa.
Insieme alle sue straordinarie doti intellettuali, Gianfranco Morra è stato per noi un esempio di libertà intellettuale, di una libertà che non è possibile senza la virtù del coraggio, del Thumòs, come lo chiama Platone nel Fedro. Gianfranco Morra la possedeva in modo sovrabbondante ed esemplare. Il Thumòs è il giusto mezzo fra la paura e la temerarietà. Esso richiama la respirazione, e cioè “l’unico processo fisiologico a essere al tempo stesso istintivo e volontario”. (R. Brague). Il ribollire del cuore “ è ciò che ci permette di rifiutare il disonore di sottometterci, ciò che fa affermare noi stessi nella nostra indipendenza e combattere per essa” (R. Brague, Vita e Pensiero, 6, 2015, pp. 91-92). Questa virtù temperamentale è anche il principio della nostra libertà perché è il principio dell’azione. É attraverso di esso che la ragione diventa pratica. Gianfranco Morra è stato un maestro di “ragione pratica”, e da questa virtù è discesa anche la grande capacità di farsi capire e di dialogare con tutti, con i colleghi, con gli studenti ma anche con il contadino e il bottegaio sotto casa. Gianfranco Morra ci ha insegnato a “ridare alla ragione la sua piena dimensione, renderla nuovamente capace di dirci non solo ciò che è vero, ma anche ciò che vale la pena di essere fatto, di riconquistare tutto ciò che rischiamo di abbandonare all’irrazionale”. (Brague, p. 93).
Fra le tante scoperte che devo a Morra, per cui il dolore odierno affoga nella gratitudine al buon Dio, il quale anche attraverso vite come queste, ci comunica quanto abbia fatto tutto bene, vi è quella di avermi introdotto alla poesia e alla letteratura mitteleuropee. In particolare ad un poeta da lui molto amato, R.M. Rilke. Con una sua poesia voglio concludere questo filiale ricordo:
“Signore,
dà ad ognuno la sua morte,
quella morte che vien da una vita
in cui si è trovato amore, senso e pena.
Poiché noi siamo soltanto il guscio e
la foglia
il frutto attorno a cui tutto gira
è la grande morte che ognuno ha in sé.
È questo che rende la morte estranea
e pesante:
che non è la nostra morte; è una morte
qualunque che infine ci prende
soltanto perché non ne abbiamo maturata
una nostra;
perciò una tempesta che viene a spazzarci via
tutti
‒Rainer Maria Rilke
La morte di un grande maestro e amico non è una tempesta che ci spazza via tutti, ma qualcosa che ci radica ancor più nella passione del nostro vivere.