Last updated on marzo 29th, 2021 at 05:41 am
Non c’è testimone pro-life più credibile di chi il dramma dell’aborto l’ha vissuto in prima persona. Il medico, certo, ma, soprattutto, la madre. Sì, perché anche la donna che rifiuta la maternità è oggettivamente madre di un figlio che non ha visto la luce. E le donne che prendono consapevolezza di questo fatto sono investite di una responsabilità più grande: quell’errore può infatti diventare il punto di partenza per salvare tante altre vite.
Così è stato per Carola Profeta, 45 anni, un aborto voluto a 23, poi tre bambini nati a pochi anni di distanza. A chi le domanda quanti figli abbia Carola risponde: «Quattro». Oggi ricopre incarichi importanti: è membro della Commissione per le Pari opportunità della Provincia di Pescara, responsabile del Dipartimento Pari opportunità, famiglia e valori non negoziabili di Fratelli d’Italia, nonché fondatrice dell’associazione «Famiglia, Vita e Valori». La Profeta ha fatto approvare una mozione in alcuni dei comuni della Provincia di Pescara per il sostegno economico alle donne in difficoltà affinché evitino l’aborto. È stata lei a consigliare all’assessore alla Sanità della Regione Abruzzo, Nicoletta Verì, l’emanazione di una circolare con cui, in controtendenza con le linee guida del ministro della Salute Roberto Speranza, si raccomandano le ASL abruzzesi di limitare l’uso della pillola RU486 in ambito ospedaliero, evitando di somministrarla nei consultori.
A 23 anni lei ha abortito. Com’era la sua vita allora e che difficoltà attraversava?
Già allora abitavo a Pescara, dove dividevo la camera con un’altra ragazza. Ai tempi ero precaria; anzi, in quel momento proprio non avevo un lavoro. Anche il mio ragazzo era stato licenziato da poco e viveva una crisi profonda. In un momento di fragilità feci scelte sbagliate. Quando rimasi incinta lui la prese molto male. Si spaventò e mi disse: «Non lo voglio, non lo voglio…». E siccome dipendevo molto da lui, mi lasciai convincere.
Cosa le è rimasto di quell’aborto?
Dovetti fare in fretta e furia perché ero già quasi alla fine del terzo mese. Avviata la procedura, entrai in ospedale dopo qualche giorno. Non voglio assolutamente deresponsabilizzarmi: la mia scelta fu libera. Però una cosa devo dirla: in quei pochi giorni non ho incontrato nessuno, né un medico, né un infermiere, né uno psicologo, né un volontario del consultorio che mi abbia insinuato un minimo di dubbio. Tipo: «Perché lo fai?», «Ma sei sicura?», «Perché non cerchiamo un’altra soluzione?». I miei genitori vivevano, e così ancora, in Sicilia. Già allora erano divorziati, ognuno con la propria vita. Non dissi nulla loro per parecchi anni, ma credo comunque che nemmeno loro mi avrebbero potuto aiutare.
Tantissima indifferenza e pochissima empatia…
Di empatia non ne ho incontrata affatto e l’indifferenza è stata totale. Il medico era molto noto a Pescara perché era l’unico che praticava aborti: nemmeno lui si degnò di dirmi qualcosa di diverso. Ricordo ancora quel corridoio di ospedale lungo e freddo, il lettino su cui distesi le gambe… In quello stato di trance è come se mi fossi autoconvinta che abortire fosse la cosa giusta.
Com’è proseguita la vita?
Mi sono sposata con quella stessa persona e sono nati altri tre figli, che oggi hanno 20, 18 e 16 anni. Purtroppo è stato un matrimonio difficile, direi quasi infernale. Nel 2015 ho ottenuto l’annullamento. Oggi ho superato. E perdonato. Nonostante le violenze e i torti non ho mai cercato di allontanare i miei figli dal padre. Oggi, con lui, i ragazzi hanno un rapporto affettuoso: lo vanno a trovare, lo sentono ogni giorno. Ho sempre voluto che fosse così, perché, per esperienza, so bene che, anche se parlassimo dell’uomo peggiore del mondo, la paternità va sempre preservata.
Qual è stato il punto di svolta?
Circa un anno dopo l’aborto ho iniziato un percorso di fede nel Cammino Neocatecumenale. Venne il momento di fare i conti con determinate scelte, che oggi definisco peccati gravi. Ho preso coscienza di quello che avevo commesso e, al tempo stesso, ho preso coscienza di essere stata perdonata. Ero stata perdonata al punto che Dio mi aveva donato altri tre figli. Ne ho maturato appieno la convinzione anni dopo, partecipando al Family Day del 2016. Fu allora che decisi di dare il mio contributo attivo al mondo pro-life e pro-family, un mondo in cui non basta dire: «l’aborto è un delitto», ma in cui ferve una discussione morale, etica e politica che mi ha fatto aprire gli occhi e realizzare che anche dal male avrebbe potuto nascere qualcosa di buono. Non devo “espiare” nulla, ma mi rendo conto che devo continuare a dare un senso a quella mia esperienza di 22 anni fa. A volte gli errori servono anche per rendersi utili. Esserci passata può rendermi più credibile.
Quale particolare la colpisce nell’attivismo pro-life?
Sicuramente che accogliere la vita e donarla non vuol dire soltanto aiutare le mamme, ma anche i papà. Nella drammatica scelta tra l’aborto e la vita i padri sono coinvolti pochissimo. Mi è capitato di sentire la testimonianza di un giovane che diceva: «Non avrei mai pensato di dover accettare un aborto, ma la mia compagna ha voluto effettuarlo e io non ho potuto aprire bocca. Eppure io e i miei genitori l’avevamo scongiurata di non abortire, dicendo che del bambino ci saremmo presi cura noi…». È insomma venuto meno il diritto di un padre ad accogliere la vita. Certe donne dicono: «Il corpo è mio e decido io», ma non è così. Un bambino ha un padre e una madre. Per questo ritengo la legge 194 incostituzionale: perché lede totalmente il diritto del padre.
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