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«Omofobia», difendere la libertà dei diversi dall’invasore

Oggi, credenti o no, siamo davvero tutti cattolici, accanto ai preti e ai vescovi che dicono «no»

Marco Respinti di Marco Respinti
11/06/2020
in Editoriali, Politica
147
Reading Time: 3 mins read
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Image from Google Images

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Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:06 am

«Omofobia» è un neologismo, coniato per squalificare “i diversi”. «Omofobia» è il termometro dell’intolleranza: si accusa l’avversario di una nefandezza per togliergli il diritto di parola.

L’«omofobia», infatti, non esiste, è una non-parola. Come tale, è l’alibi degli ideologi del gender per mettere ai ceppi gli altri. Non esiste, l’«omofobia, perché non c’è la sostanza che la parola vorrebbe indicare. La violenza esiste, certo, e infatti si chiama così, «violenza». Se uno nuoce a una persona, omosessuale, bisessuale, transessuale, eterosessuale, bianco, nero, a strisce, musulmano, cattolico, ateo, è un violento e per questo deve pagare. Non c’è bisogno di inventare una sovrastruttura linguistica, pretesa semantica, per rincarare la dose. Ma non è di violenza che oggi si parla.

L’«omofobia», infatti, configurerebbe il reato di opinione, di giudizio, di pensiero. Se in Italia venisse approvata una legge che configurasse il reato di «omofobia» non sarebbero i violenti, come sarebbe giusto, a pagare, per le proprie malefatte, ma i miti: coloro che semplicemente avessero la ventura di credere nella democrazia, nella libertà di espressione, nello scambio di idee, persino nel “dibattito”. Il confronto, infatti, verrebbe precluso a tutti coloro che parlassero, e pensassero, con voce, e con mente, diversa dal conformismo plumbeo del pensiero unico. Ecco: l’«omofobia» è una violenza e per questo va combattuta.

In quanto violenza, la combatte mons. Antonio Suetta, che non teme di dire con candore che il processo alle intenzioni, la censura, la vendetta preventiva sono porcherie. In quanto violenza, la combatte la Conferenza Episcopale Italiana, che sul tema è intervenuta con grande efficacia. E il punto qui è notevole.

Serpeggia, infatti, un certo retropensiero, difficile da localizzare e da quantificare come tutte le arie che tirano, ma non per questo meno pervicace, secondo cui, un conto sarebbe la gerarchia cattolica, un altro il pueblo vociante della “massa cristiana”. I primi, la gerarchia, sarebbero maestri di stechiometria, intenti soprattutto a pesare con il bilancino le parole per non disturbare il manovratore e farsi belli agli occhi dei potenti. I secondi, la mandria mugghiante, sarebbe invece una bolgia di massimalisti con l’occhio iniettato di sangue e la bava alla bocca, gente da osteria e da piazza(te). I primi magari in cuor proprio penserebbero pure che la teoria del gender non è esattamente granché, ma si guarderebbero bene dal dirlo e anzi si schiererebbero volentieri con “gli altri” nello stigmatizzare l’«omofobia». Di chi? Dei secondi, la canaglia di strada, che vede gay anche sotto il tavolo e che di contumelia in intemperanza si fa strada, costringendo i poveri presuli sulla difensiva per non essere confusi con cotanti talebani. Alla fine della giornata, si avrebbe così una turba che difende pessimamente una causa forse buona da un lato e dall’altro uno stucchevole minuetto di damerini in clergyman, che, “ma insomma, madama la marchesa, di certi ceffi proprio non se ne può più, nevvero?, prendo un bignè”, porta acqua ai fautori dell’istituzione del nuovo reato di «omofobia».

Tutto questo però esiste solo nelle rappresentazioni, e nei sogni, degli intolleranti che vorrebbero conculcare la sacrosanta libertà dei cittadini italiani: libertà di parola, di pensiero, di opinione, di giudizio, di educazione, di valore.

La realtà infatti racconta che i puzzoni trinariciuti non abitano fra chi ama le persone perché fatte a immagine e somiglianza di Dio, benché professino ideologie e idee assurde, acclamino la teoria del gender e cerchino di ridurre “il diverso ” al silenzio, e aggiunge pure che la gerarchia della Chiesa Cattolica, sgamatissima, ha ben capito il trucco, così che, scartando di lato alla grande, evita con maestria il trappolone «omofobia».

Non è il sottoscritto, né qui né mai, l’interprete del pensiero della Chiesa Cattolica, ma è evidente che la discesa in campo, storica, della gerarchia italiana contro la parolaccia della neolingua intollerante, «omofobia», questo dice, e non altro.

L’«omofobia» è infatti la rete con cui, strumentalizzando il gender oggi e domani chissà cosa, i sacerdoti del pensiero unico cercano di omologare un Paese. Siamo oramai abituati a svendere la nostra libertà e responsabilità per un po’ di presunta sicurezza in più, volete che non ci siano frotte di pesci pronti ad abboccare? Ma i pescatori di uomini stavolta vegliano. Oggi, credenti o no, siamo davvero tutti cattolici, accanto ai preti e ai vescovi che difendono la libertà dei diversi dall’invasore.

Tags: Omofobia
Marco Respinti

Marco Respinti

Marco Respinti è stato il direttore di International Family News fino alla fine del 2022.Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan), è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal (L’Aia, Paesi Bassi). Membro del Comitato editoriale del periodico The European Conservative e del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief, è direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e, sul web, di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

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