Oggi, noi pro lifer davanti al coronavirus

Il mistero della morte, l’ineluttabilità della malattia, la necessità di battersi sempre per la vita umana

Coronavirus

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Il coronavirus è arrivato anche in Italia, il Paese europeo con il maggior numero di contagi. Coronavirus il terribile, il micidiale, l’inesorabile. La paura si diffonde, fondatamente, ma pure ‒ come sempre, in casi simili ‒ con la sua coda d’irrazionalità. Città chiuse, comunità isolate, migliaia di persone volontariamente prigioniere delle proprie case, eventi annullati, Carnevale cancellato, ritrovi disertati, strade e piazze svuotate (in alcuni Paesi del Lodigiano è letteralmente così) come in una inquadratura in bianco e nero del meriggio assolato e afoso di un film di don Camillo, mentre i dottori cercando affannosamente il paziente 0.

Il coronavirus in realtà è banale. È un’influenza, o poco più. L’uomo ha sconfitto malattie ben peggiori, eppure adesso è in ginocchio per un’influenza. Quotidianamente attraversano la nostra strada malattie ben più orrende, ma sostanzialmente ci abbiamo fatto il callo e non le temiamo più. La meningite, per esempio. E poi c’è l’ebola e lo zika. E l’AIDS. Che cosa, allora, fa paura nell’invisibile, impercettibile coronavirus che dà la morte senza chiedere il permesso e senza distinguere fra ricco o povero, potente o semplice, come in una danse macabre medioevale? Anzitutto la novità. L’uomo teme l’ignoto, ma quando si assuefà, la sua soglia di percezione del pericolo fatalmente diminuisce. In secondo luogo, il fatto di non possedere un antidoto. Il coronavirus è una banale influenza, ma per essa non c’è il vaccino. E questo cancella totalmente, immediatamente la banalità della malattia. Non vi è nulla di banale nella malattia, nel male, perché non è banale il fatto che l’uomo, di fronte alla malattia, sia impotente. Si illude, l’uomo, di potere sconfiggere il male e la malattia, ma al più vince delle battaglie. La guerra non la vince né la vincerà mai.

Il male e la forza

Il progresso umano è sacrosanto, e una benedizione. Lo sviluppo della medicina è un tesoro da preservare e da accrescere, da insegnare e da trasmettere. Ha salvato milioni di vite, salva persone ogni giorno. Ma di fatto rimanda solo il problema. Prima o poi si muore tutti. Anche Lazzaro, che venne risorto, poi a tempo debito è morto. Ed ecco che allora spuntano due questioni nodali cui il coronavirus ci richiama, tutti, ancora una volta indistintamente: il mistero della morte e l’illusione di potenza. A nessuno dei due possiamo sfuggire. Non è una questione di fede o incredulità, di religione o no, di preti e affini, di credenti o non credenti. Alla morte nessuno sfugge, qualunque cosa una persona pensi di essa e della possibilità che dopo di essa vi sia qualcosa. L’espressione «mistero» tollera molte semantizzazioni, alcune forti e alcune deboli; normalmente le seconde sono l’impoverimento delle prime. «Mistero» in accezione debole significa ciò che non si conosce; «mistero» in accezione forte significa «manifestazione». Una manifestazione a cui l’uomo, certo, fa fatica o non riesce a dare spiegazione, ma questo non ne elimina la realtà, e la cogenza. La morte è un mistero anche nella sua accezione forte pure per i non credenti; e credenti o non credenti dal mistero della morte vengono scossi, provocati, schiaffeggiati. Ecco, il coronavirus ci rimette prepotentemente, senza domandare il permesso al nostro tutto aggiustare, davanti alla morte: alla sua possibilità immediata e al suo mistero.

Lo xenomorfo assassino della serie “Alien”.
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Contemporaneamente questa banale influenza che non è banale ci sbatte in volto, altrettanto prepotentemente, il limite umano. Vogliamo e dobbiamo progredire, studiare, migliorare, debellare le malattie, ma non le sconfiggeremo mai per sempre. A volte si ripresentano, mutano, si trasformano, “rinascono”, e questo è il punto. Che cos’è, davvero, la malattia? Che cos’è, nel profondo, quel microrganismo acellulare, submicroscopico e parassita che divora le cellule degli organismi che infetta, che vive solo replicandosi dentro un corpo ospite finendo per devastarlo fino alla morte, e a cui diamo il nome che i latini usavano per indicare il veleno, virus, quasi corruzione di vis, «forza», da cui deriva vir, «uomo», in quanto energico e valoroso, tant’è che deriva dal greco ἥρως, heros, «eroe», e da cui quindi virtus, «virtù», e che persino in informatica ha generato un uso traslato oggi generalmente ricondotto, nelle sue varie casistiche, al termine generico malware, «codice maligno»?

Che cos’è davvero quell’esserino totalmente misterioso e invisibile capace di sbriciolare gli organismi più robusti? Da dove viene, che origine ha questo virus che odia, attacca e combatte il vir, questo nemico dell’umana natura?

Sopravvissuti e leggende

Non lo sappiamo, la medicina non lo sa, e questo è un altro punto fermo. Lo combattiamo, dobbiamo combatterlo, ma è un nemico ignoto. È il contrario esatto di ciò che è sanità e salute, di ciò che è bene e buono. Diverso, alieno, totalmente inimico, inimica vis. È lo xenomorfo di Alien, il film originale, sublime, di Ridley Scott del 1979, non il resto, cheap, del franchise: il predatore più estremo dell’universo, intelligente ma completamente privo di emozioni, che si riproduce come un parassita annidandosi nei corpi di altri esseri viventi che poi uccide, incarnazione del male del cosmo in quanto male, mistero del male, senz’altri aggettivi e spiegazioni. O come gli Yuuzhan Vong di Star Wars, che vengono da un altro universo, alieno e nemico del mondo dei mondi delle guerre stellari, indifferenti all’ordine cosmico della Forza mistica che regge quella galassia, sua stessa antitesi, tanto che sia Jedi sia Sith, cioè sia buoni sia cattivi, debbono unirsi per fronteggiarne l’offensiva volta a distruggere tutto, financo il passato e la memoria.

Virus lo abbiamo appunto importato anche nell’informatica. Lo scrittore e biochimico sovietico naturalizzato statunitense Isaac Asimov (1920-1992) s’interrogava su quei frammenti di codici orfani che permangono nelle strutture cibernetiche e che potrebbero svilupparsi autonomamente in «codici maligni» contro le tre leggi della robotica. Quelle tre leggi sono straordinarie. Sono la codificazione dell’impossibilità strutturale, costitutiva del robot, di agire contro l’uomo, così che il robot esiste solo per servire l’uomo, pro lifer per eccellenza.

Il panico da coronavirus ci riporta alla mente la bellissima serie televisiva post-apocalittica britannica, trasmessa nel 1975, I sopravvissuti, e, più di recente, la serie The Last Ship, trasmessa in cinque stagioni dal 2014 al 2018. Il film, diretto da Francis Lawrence nel 2007, Io sono leggenda, liberamente ispirato (con parecchie differenze) all’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Richard Matheson (1926-2013), compie un passo oltre. In un delirio di onnipotenza, l’uomo crede di avere sostituito finalmente Dio, se Dio mai esistesse, e di avere finalmente sconfitto ogni e qualsiasi malattia avendo trovando la medicina globale. Ma, nel momento massimo del trionfo e del gaudio, la cura si rivela il male dei mali, la malattia peggiore e totale, che addirittura sforma l’umano in vampiro, parassita supremo, e cambia per sempre per la storia.

Guerra tra due mondi

La letteratura aiuta ad affrontare il mistero e a comprendere meglio le dinamiche enigmatiche dell’umano. Ne I promessi sposi Alessandro Manzoni (1785-1873) affresca splendidamente la rivalità tra due assurdi: la superstizione della peste come complotto di necromantici untori, in realtà inesistenti, e il saccente positivismo di don Ferrante, che non crede alla realtà del contagio, l’attribuisce a congiunture astrali (e qui, come sempre, il razionalismo si rovescia in magismo) e vi lascia la pelle.

Alessandro Manzoni (1785-1873), autore de “I promessi sposi”. Image from Google Images

Insuperabile è l’idea che muove La guerra dei mondi, romanzo del 1897 dello scrittore inglese Herbert G. Wells (1866-1946), adattato dal regista statunitense Orson Welles (1915-1985) in un celebre programma radiofonico nel 1938. Ce n’è un remake omonimo diretto da Steven Spielberg nel 2005, che sarebbe assurdo, nel suo crescere di scene angoscianti, claustrofobiche, raccapriccianti, se non fosse per il finale. Una invasione aliena fa strage di umani, e non c’è arma in grado di sconfiggere il nemico. Tutto sembra perduto finché… finché gli alieni criminali prendono l’influenza, malattia banale sulla Terra perché abbiamo i vaccini, ma sconosciuta nel mondo da cui provengono quegli assassini seriali e sistematici, e pertanto letale. Nell’epilogo risuonano queste parole: «Quando gli invasori arrivarono e cominciarono a respirare e a nutrirsi, quegli organismi infinitesimali, che Dio nella sua saggezza aveva messo sulla Terra, iniziarono a condannarli, annientarli, distruggerli, dopo che tutte le armi e gli stratagemmi umani avevano fallito. Mediante il sacrificio di miliardi di vittime, l’uomo ha acquisito la sua immunità, il suo diritto alla sopravvivenza tra le infinite creature di questo pianeta. E quel diritto è suo contro ogni sfida, poiché gli uomini non vivono e non muoiono invano».

Non si scandalizzeranno i lettori laici di “IFamNews”, gli amici non credenti che con noi si battono per la difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale se qui si cita Dio. Lo considerino un dato oggettivo, letterario, di sceneggiatura. Lo considerino il bandolo di quel mistero che è la vita e che è la morte. Ma ciò a cui la letteratura, che ci racconta, e talora spiega, la realtà per immagini e suggestioni, ci educa è il valore insopprimibile proprio della vita umana. Il coronavirus è un orrore, un alieno che non abbiamo armi per sconfiggere. Tifiamo perché il progresso medico, la cui bellezza anche culturale e la cui immensa utilità concreta ammiriamo e riveriamo, trovi al più presto un vaccino, vincendo un’altra grande battaglia di questa guerra impari. Ma il bene a cui, paradossalmente, l’immondo coronavirus ci richiama ora è proprio la necessità di onorare la vita umana sempre, di difenderla, tutelarla, garantirla, sia curarla sia averne cura, accompagnarla, consolarla, alleviarne le sofferenze, chiamarne i mali con il loro nome, additarne il bene, sempre, dal concepimento alla morte naturale, quella morte naturale cui per esempio anche una banale influenza non banale può condurre senza chiedere il nostro permesso e beffandosi delle nostre risibili volontà di potenza. Mai sodali, infatti, del coronavirus, ma sì dei robot, i pro lifer.

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