Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:33 pm
Quanto hanno stufato le parole di de Coubertin «l’important dans ces olympiades, c’est moins d’y gagner que d’y prendre part», “l’importante non è vincere, ma partecipare”, coppa del nonno quando gli altri han vinto l’oro e alibi dei brocchi? Ma solo perché, popolo di dura cervice, ci fermiamo a metà del guado.
L’aforisma che il pedagogista francese Pierre de Frédy, barone di Coubertin (1863-1937), coniò per il discorso pronunciato il 24 luglio 1908 sugli ideali olimpici e immortalato a stampa sulla Revue Olympique, infatti continua: «L’important dans la vie, ce n’est point le triomphe mais le combat; l’essentiel, ce n’est pas d’avoir vaincu mais de s’être bien battu. Répandre ces préceptes, c’est préparer une humanité plus vaillante, plus forte partant plus scrupuleuse et plus généreus», «L’importante nella vita non è affatto il trionfo ma il combattimento; l’essenziale non è avere vinto, bensì l’essersi battuti. Diffondere questi precetti significa preparare una umanità più valente, più forte, dunque più coscienziosa e più generosa».
In realtà era farina non della sua bisaccia, ma di quella di un uomo di Chiesa, come il barone riconobbe apertamente, Ethelbert Talbot (1848-1928), vescovo di Bethlehem, in Pennsylavania, quindicesimo presidente dei vescovi della Chiesa episcopaliana, e il locus l’omelia che il reverendo tenne durante la liturgia officiata per gli atleti olimpici e i dirigenti sportivi nella cattedrale di St. Paul a Londra, in Inghilterra, il 19 luglio 1908.
Il francese vi ci epitomizzò lo spirito olimpico, facendone una bandiera, perché le Olimpiadi furono giochi e tenzoni religiose quindi atletiche, se erano in corso guerre si sospendevano, anticipando quanto il Medioevo seppe fare con la tregua Dei, servirono a ordinare contando gli anni della storia umana e nel 393 l’imperatore Teodosio I (347-395) li chiuse perché non avevano più ragion d’essere in un mondo divenuto cristiano (e fu per questo che egli, non l’imperatore Costantino [274-337], dichiarò il cristianesimo religione ufficiale dell’impero: riconobbe un fatto, non impose un confessionalismo). Epperò in realtà soltanto perché la palma del campione vittorioso spettò da quel momento ai martiri e perché ora l’olio con cui i lottatori si preparano all’agone consacra gli atleti del trono e dell’altare.
Perché lo sport è come il gioco è come la vita.
Gli scacchi, per esempio, o il domino o le carte. Come due squadre che si affrontano sul campo per difendere una inviolabilità, divise da una linea, che è ponte, che è barriera. Come là dove il ginnasta equivale allo scalatore della montagna e al marinaio alle vele. Come lo scontro, la tenzone, la belligeranza, persino la guerra in tutto il suo splendido orrore.
Ho reimparato a ricordarmi delle parole dimenticate di de Cubertin grazie a un bel film, Eddie the Eagle, basato su una storia reale. Mi è tornato alla mente Il castello, basato su una storia non reale ma vera. Ho capito che è questo ciò che facciamo tutti i giorni. Difendere una inviolabilità, controbattere alle aggressioni dell’altra squadra, perdere costantemente per avere già vinto.
Perché si può a ogni giro di lancetta dell’orologio, ma la vittoria è già scritta: nelle cose che ci precedono, nel tempo che ci sopravanza, persino all’inizio dei tempi, se qualcuno ancora crede in un Creatore. Ma persino chi non ci crede più, se dice che d’estate l’erba non è verde, mente sapendo di mentire.
Non scrivo tutto questo perché l’altroieri, 2021, si sono aperti i campionati europei di calcio 2020 come se qualcuno ci avesse rubato del tempo per qualche sconfitta in più. Lo scrivo perché «l’importante nella vita non è affatto il trionfo ma il combattimento; l’essenziale non è avere vinto, bensì l’essersi battuti. Diffondere questi precetti significa preparare una umanità più valente, più forte, dunque più coscienziosa e più generosa».