Nel Diritto internazionale non c’è alcuno speciale status LGBT+

Stefano Gennarini (C-Fam): «Servono politiche per la famiglia e per la dignità dell’uomo»

Silhouette nero su bianco di un uomo e di una donna

Image by Gerd Altmann from Pixabay

Last updated on Ottobre 2nd, 2020 at 02:07 am

Definire il concetto di «identità di genere» come «costrutto sociale in divenire» è una menzogna che colpisce anzitutto le donne, sottraendo loro spazi e risorse dedicati per ridestinarli a una esigua minoranza che pretende di imporre le proprie preferenze come fossero “diritti umani” da tutelare e da promuovere. L’Organizzazione delle Nazioni Unite stessa sta del resto operando una profonda modifica del concetto di «genere», tema, questo, messo a fuoco da Stefano Gennarini di C-Fam (Center for Family and Human Rights), esperto di Diritto internazionale, oltre che padre di una famiglia numerosa.

Nelle sue parole riecheggia del resto l’invito del filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, che in Dopo la virtù, suggerisce la costituzione di «forme locali di comunità capaci di conservare la civiltà, la vita morale e intellettuale attraverso gli incombenti secoli oscuri», un compito che “iFamNews” si è assunto con entusiasmo.

Ora, sottolineando come la prima definizione della parola «genere», concordata dagli Stati membri delle Nazioni Unite nell’Annex della Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995, faccia riferimento al’uso “comune” e alla “comune” comprensione del termine secondo il suo utilizzo «ordinario e generalmente accettato», sembra che un seme di ambiguità sia già presente, tanto che se non vi fosse la successiva definizione dello Statuto di Roma del 2000, basterebbe il mutamento (di fatto nell’uso già avvenuto) del riferimento “comune” all’uso “ordinario” e “generalmente accettato” per rendere equivoco il termine. Il nominalismo gnoseologico sotteso sembra sorgente dell’ambiguità, tanto da essere la breccia attraverso cui qualsiasi altro uso della medesima parola debba essere accettato, una volta “imposto” all’uso comune “per altre vie”.

Dottor Gennarini, condivide questo giudizio?

Sull’ambiguità della definizione di gender nell’Annex della Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995, direi che sono d’accordo, ma solo per quanto riguarda il compromesso politico e quindi le politiche internazionali che sono state portate avanti a seguito dell’accordo raggiunto in Cina. Si può infatti dire che il seme della teoria del gender è stato piantato già lì. L’ambiguità della definizione ha quindi permesso alle agenzie dell’ONU di agire a piacimento. Ma, da un punto di vista giuridico, è difficile dire che il termine sia ambiguo e interpretabile, giacché, sino al 1995, «gender» non aveva ancora le connotazioni odierne. La definizione data dalla Conferenza è stata per lo più chiarificata dalla definizione di gender presente nello Statuto di Roma, che non è per niente ambigua. Del resto, le due definizioni non possono essere considerate separatamente. Sul piano giuridico è chiaro che stabiliscono una definizione di gender di tipo binario, ovvero basata sull’uso comune del termine.

Lei ha avuto occasione di osservare che i gruppi di pressione LGBT+ sono di fatto incapaci di ottenere i finanziamenti di cui abbisogna la loro azione. Ma come possono, allora, riuscire a incidere tanto significativamente?

Attenzione, il mondo LGBT+ non è ancora riuscito modificare il Diritto internazionale, che continua a non riconosce alcuno status LGBT+ speciale. Non bisogna cadere nella trappola burocratica che fa credere che sia già tutto risolto. Cioè, seppure capaci di avanzare molto in seno all’ONU, gli attivisti LGBT+ ancora non hanno stabilito alcuna nuova categoria del diritto.

Il diritto internazionale riconosce e protegge egualmente ogni persona in base alla dignità umana di cui è portatore, ma non esiste un diritto internazionale alla completa autonomia sessuale. Mentre nel diritto internazionale si riconoscono categorie di stato, credo o condotta protette, come la razza, il sesso e la religione, non vi è alcuna categoria che riguardi il comportamento sessuale, tantomeno quella omosessuale o transgender. Infatti, l’unica autonomia sessuale riconosciuta e protetta dal diritto internazionale è quello dell’uomo e della donna a sposarsi liberamente per formare una famiglia intesa nel contesto della complementarità fra i sessi.

Anche il diritto alla vita familiare e privata non è mai stato inteso come protezione di un presunto diritto all’autonomia sessuale se non recentemente e da una minoranza di sistemi giuridici. Bisogna poi tenere in conto che gli Stati che hanno negoziato e ratificato i trattati internazionali sui diritti umani avevano leggi contro la condotta omosessuale o comunque altre normative che sanzionavano l’infedeltà o la promiscuità sessuale.

Crede sarà mai possibile tornare a definire i concetti giuridici a partire dalla realtà (in questo caso il dato biologico), oppure l’unica speranza è che un mutamento culturale riporti l’uso comune?

È chiaro che occorra muoversi nel campo sia politico-giuridico sia culturale: per questo sono convinto che la definizione di gender di tipo binario, concordata 25 anni fa nella Conferenza mondiale di Pechino sulle donne, ulteriormente specificata nello Statuto di Roma del 2000 e tuttora parte della politica e del diritto internazionali, sia così importante. Ma non basta. Bisogna avanzare anche politiche che promuovano la famiglia e la dignità dell’uomo e della donna secondo una cultura umana autentica. Soprattutto bisogna che uomini e donne scelgano di esercitare il proprio diritto fondamentale a fondare una famiglia.



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