Madri rescisse

Conversazione con Assuntina Morresi su genitori, figli e alienazione parentale

Mamma che ride con figlio in braccio

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Last updated on Giugno 30th, 2021 at 04:03 am

La vicenda del bambino di Pisa allontanato da casa con l’intervento delle forze dell’ordine, senza la presenza di personale sanitario, strappandolo letteralmente dalle braccia della madre e consegnandolo al padre, con cui si rifiutava di stare, è di tre giorni fa. Ma non è l’unico caso, purtroppo. Né il primo. E il timore è che non sia nemmeno l’ultimo.

Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica presso il Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università degli Studi di Perugia, editorialista, membro del Comitato nazionale di Bioetica, ne parla con «iFamNews».

Professoressa Morresi, su Facebook lei ha seguito, quasi ora per ora, la vicenda del prelevamento coatto avvenuto in Toscana di un bambino di otto anni, tolto alla madre e collocato presso il padre, che vive in Sicilia, nonostante al momento la coppia, pur giudicata «ad altissimo tasso di conflittualità», godesse dell’affidamento congiunto. E ha promosso quello che si può definire un appello, sui social, a sollevare il problema. Perché?

Il motivo è presto detto: non è possibile, non è umano, strappare un bambino alla madre in questo modo, con la violenza, mentre il piccolo scalcia e urla e supplica di restare con lei. L’allontanamento di un minore dalla famiglia o da uno dei genitori, disposto da un giudice, dovrebbe essere l’extrema ratio, in situazioni gravissime e solidamente documentabili. Comunque mai con modalità di questo tipo, addirittura forzando porte, staccando telecamere per impedire le riprese, facendo la voce grossa per intimorire e costringere. Invece, è proprio ciò che viene sempre più spesso riportato dalle cronache, fotografie e video sono online, tutti possono rendersi conto.

Quanto al fine del mio appello, lo ha già detto lei e io l’ho già scritto su Facebook: sollevare il problema, fare sì che ci si renda conto che, specialmente nei casi di separazione conflittuale, troppo spesso la mamma non viene creduta e il bene del minore non è garantito. È invece necessario proteggere i bambini.

Sta dicendo, cioè, che si tratta di procedure frequenti, non di casi isolati, e che spesso capita che i figli siano allontanati con la forza?

Sì, esatto, proprio così. I casi sono numerosi. Basta ricordare qualche nome di madri cui sono stati tolti i figli, per altro basandosi su motivazioni tutte da provare: Maria Assunta Pasca, Laura Massaro, Ginevra Pantasilea Amerighi, Rebecca Morelli, per citarne alcune. I bambini, quasi sempre piccoli, e per questo accuditi e cresciuti principalmente dalla mamma, spesso non vengono ascoltati adeguatamente, con alcuni giudici che, anziché accertare i fatti accaduti, tendono a delegare ai servizi sociali e agli psicologi, i quali invece dovrebbero essere solo di supporto, e per di più a volte per i loro pareri si basano su costrutti teorici discutibilissimi, come per esempio l’alienazione parentale.

In caso di separazioni conflittuali questi bambini vengono sottratti molto spesso alle madri, proprio perché quanto più sono piccoli tanto più frequentemente vivono con le madri, e consegnati ai padri, con cui non vogliono stare, o condotti in una casa famiglia, in situazioni di dolore e di strazio, come accaduto di recente anche in Umbria, protagonista una donna che aveva denunciato il partner per violenza, che non è stata creduta e si è vista, di fatto, ritorcersi contro le accuse.

Quali sono le accuse rivolte alle madri per motivare provvedimenti tanto gravi?

In questi casi le madri vengono definite ostative, malevole, simbiotiche. Sono i termini utilizzati nel contesto della cosiddetta sindrome da madre malevola (MMS), analoga alla sindrome da alienazione parentale (PAS), secondo le ipotesi avanzate del medico statunitense Richard Gardner (1931-2003). In pratica si accusano le donne di allontanare i figli dal padre, denigrandolo, insinuando cattiverie, squalificandone la figura agli occhi del figlio. Ancora di più: si ritiene per assunto che i bambini rifiuterebbero il padre a causa del condizionamento negativo della madre nei loro confronti.  I bambini, per questo, respingerebbero il papà ed eviterebbero di incontrarlo, men che meno di vivere con lui nei tempi stabiliti dai tribunali.

La PAS, però, è una ipotesi controversa che non ha validità scientifica ed è un costrutto meramente giudiziario, basato non su azioni o comportamenti oggettivi bensì sull’ipotesi (di nuovo) di come il genitore, solitamente la donna, sia. La Corte di Cassazione ha emesso una ordinanza chiara e netta contro la PAS, giudicandola infondata. Ci sono però tribunali italiani che continuano ad accettare tale ipotesi, più o meno esplicitamente, accreditata anche da psicologi che parlano di utilità della “parentectomia”: l’asportazione, come di un tumore, di un genitore, di solito la madre.

In questi casi l’assegnazione temporanea a una casa-famiglia servirebbe dunque per “resettare” il bambino e riavvicinarlo alla figura paterna.

Quale potrebbe essere una strada percorribile, piuttosto, che rispetti prima di tutto i bambini?

Invece, se un bambino mostra un rifiuto nei confronti di un genitore, sia esso la madre o il padre, bisognerebbe innanzitutto chiedersi il perché, cercare di capire cosa è successo che ha scatenato quel rifiuto. Cercare i fatti. Non è semplice, certo, tanto più piccoli sono i bambini, ma è questa la strada da percorrere. I bambini vanno sempre ascoltati.

E sicuramente staccarli violentemente dal genitore con cui vivono e con cui vogliono chiaramente vivere, come è avvenuto nei casi che abbiamo descritto, non risolve il problema, al contrario.

Cosa succederebbe se una madre rifiutasse di consegnare il bambino nel momento del prelevamento coatto?

Non è possibile rifiutarsi di consegnare il bambino; vi sono sanzioni penali. Per altro le donne di cui le ho parlato hanno tutte cercato di rendere la situazione meno traumatica possibile per i figli.

È possibile che vicende di questo tipo intimoriscano le donne abusate da compagni violenti e che le spingano a non denunciare, nel timore di vedersi togliere i figli?

Certo che è possibile, è chiaramente uno dei rischi di questo utilizzo strumentale della PAS. Centri di ascolto e gruppi di donne che si occupano di queste problematiche dicono giustamente alle donne di non accettare mai alcuna violenza né fisica né psicologica, e denunciare “al primo schiaffo”. Il sistema in atto nei tribunali, però, non funziona: ci sono tribunali che spesso “non si parlano” fra loro, ed emettono pronunciamenti contrastanti. È questo il caso di Laura Massaro, a Roma, dove la Corte di Appello ha rigettato la richiesta di allontanamento del figlio mentre il tribunale dei Minori lo ha chiesto. Spesso le denunce di violenza non sono credute, la maternità non è difesa.

Ciò significa una cosa sola: che il migliore interesse del bambino non è tutelato. Dovrebbe invece essere l’unico e più importante fine di tutti.

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