Last updated on Ottobre 22nd, 2021 at 11:25 am
All’epoca c’era il mercatino dell’usato di Via Marina, proprio in riva alla Milano bene, allestito per combattere il carolibri. Lo allestiva Gioventù Studentesca, come la comunità di Comunione e Liberazione era recentemente tornata a chiamarsi nei licei. Noi ci si andava per risparmiare qualche lira, ma loro l’avevano pensata come un’occasione. Per qualcuno di quei giovani avrebbe anche potuto essere infatti la sola occasione della vita per uno sguardo diverso sull’esistenza, la propria. L’idea è sempre stata quella: un incontro, un avvenimento, quello della vita, cioè i tanti avvenimenti della vita, snodati, slegati, sghimbesci e apparentemente soli ma invece abbracciati dentro un avvenimento più grande, che loro, noi, scrivevano con l’iniziale maiuscola, che tutti e che tutto ricapitola nella misericordia.
Un pomeriggio tardi, che già faceva sera, sul pavimento di assi di legno dolce del banchettino libri, uno spazietto non improvvisato ma precario come la vita (che improvvista non lo è mai, ma precaria sempre) prese a parlare un giovane con qualche anno in più di noi giovani. Aveva scritto un libro e ne parlava. Nel nome del niente, Gigi Amicone. Sì, Luigi.
Non avrei mai pensato che quel Gigi sarebbe stato, molto dopo, il primo direttore di un giornale a cui avrei lavorato fisso seduto a un desco, imparando attrezzi del mestiere, sbagliando un sacco, combinandone alcune.
Di Nel nome del niente ho iniziato a capire qualcosa parecchio dopo. Il senso delle cose, il significato che ti aggredisce e che non ti molla, l’alternativa a quel nulla solo superficialmente verniciato di idealismo ideologico. L’alternativa fra le cose come segno e, appunto, il niente. Rileggo queste parole e mi accorgo che sto scrivendo un po’ come scriveva Gigi. Non lo faccio apposta. E non mi correggo.
Gigi ha indossato il settimanale Il Sabato (che per venderlo alla mattina nell’atrio del mio liceo presi schiaffi) e lo ha incarnato. Il Sabato è un pezzo tosto di storia italiana che nessun libro racconterà mai. Gigi era la persona perfetta per farlo, ma adesso è tardi. Gigi Amicone è scomparso improvvisamente la notte tra il 18 e il 19 ottobre a Monza. Gli sarebbe certamente piaciuto vedere descritto Il Sabato con le parole di un grande reazionario scoperto in un’epoca più tarda, quando si gareggiava a chi era più controcorrente rispetto al liquame che ci scorre(va) attorno, Nicolás Gómez Dávila: «Viviamo la milizia del cristianesimo con l’allegria del guerrigliero, non con l’astio della guarnigione assediata». Dopo Il Sabato Gigi ha dato vita a Tempi allo stesso modo.
Non ho condiviso alcuni giudizi di Gigi, alcune valutazioni, alcuni impegni. Lui non ha condiviso alcuni dei miei. Per questo siamo rimasti sempre legati. Gigi sbagliava con la medesima levità con cui faceva centro, e questo accade a pochi. Il suo era l’unico viso umilmente spavaldo capace di andare in tivù e tuonare forte su aborto, divorzio, eutanasia, utero in affitto e ideologia gender conservando calma e decenza. Salvo perdere la prima per passione nel contraddittorio e mantenere sempre la seconda per amore all’umano.
Era un guastatore, Gigi, contro il relativismo contemporaneo, un guerriero armato contro il nichilismo. Ci mancheranno i suoi gesti, le sue parole, il suo darsi sempre tutto. Ha vissuto appassionatamente l’istante, Amicone, ha guardato sempre oltre. Ha contemplato devoto il mistero della vita e ora sa tutto sereno nella morte. «Perché è lì il punto», dici con quel tuo gesto tipico nella foto qui sopra che ho sciabolato agli amici di Tempi. «Il centro è lì. Sennò non si capisce…».
Andrea Morigi, amico e collega, ne ha commentato così l’uscita dalla scena terrena, preciso e secco come un dardo: «È una grossa perdita di wit». Avrei voluto dirlo io.
Altri hanno scritto e scriveranno bene dei suoi successi professionali, delle cose belle che ha fatto, detto, insegnato senza mai averne l’aria, del suo impegno politico, del rapporto privilegiato con il Servo di Dio Luigi Giussani. Non io. Io ora taccio. Con la voce, ma non dentro.
Rileggo di nuovo queste mie poche righe e sono tentato di buttarle. Non lo faccio e pago la mia boria per un solo motivo: per dirti grazie, Gigi. Lo sai che sono un ritardatario cronico, ma vero che mi aspetti assieme a tutti gli altri amici e maestri con cui siedi a tavola ora?