Last updated on marzo 1st, 2020 at 09:25 am
La proposta del governo Conte bis di rendere obbligatoria l’istruzione pubblica fin dall’asilo ‒ proposta contro cui Massimo Gandolfini è pronto a scatenare il popolo del Family Day e i liberali a seguirlo ‒ è frutto di un’idea che riemerge in modo ricorrente nella Sinistra italiana. Anche durante il governo di Matteo Renzi vi era una proposta simile nel disegno di legge presentato dalla senatrice del Partito Democratico (PD) Francesca Puglisi, oggi Sottosegretario del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. La stessa politica è del resto già stata applicata in Francia dal governo di Emmanuel Macron.
Perché la Sinistra, non solo italiana, è così innamorata di questa idea? Ufficialmente, le spiegazioni sono principalmente due: evitare l’emarginazione dei bambini dal sistema scolastico e sostenere i genitori. Di qui il proliferare di statistiche sulla bassa frequenza degli asili, specialmente nelle regioni meridionali e di testimonianze di genitori che non possono permettersi né l’asilo né la tata. Tuttavia, in entrambi i casi, si nota una voluta confusione tra opportunità e obbligo. Infatti, uno Stato che tenga a non lasciare i bambini per strada e a sostenerne i genitori, potrebbe aiutare le famiglie che ne avessero bisogno. L’obbligo, invece, riguarda tutti, anche le famiglie che non avvertono affatto la necessità di mandare il figlio all’asilo. L’intento, più che aiutare genitori bisognosi o bambini emarginati, è infatti quello di inserire da subito i bambini in una educazione pubblica, allontanandoli dalla famiglia.
Per capire al meglio questo intento è bene ricordare cosa fosse e come agisse una sinistra politica portata alle sue estreme conseguenze nel regime più coerentemente comunista della storia: la Cambogia dei Khmer Rossi (1975-1979). Non per insinuare che il leader del PD, Nicola Zingaretti, o Macron siano come il regime genocida cambogiano di allora, ma perché l’osservazione di un modello estremo è utile per comprendere meglio l’intento delle sue varianti più annacquate e moderate.
Il Partito-dio
In Ho creduto nei Khmer Rossi, libro testimonianza di Ong Thong Hoeung, sopravvissuto al regime, l’aspetto dell’educazione comune dei minori emerge in tutta chiarezza nella descrizione dell’organizzazione dei villaggi collettivi. «Le madri possono allattare i loro figli durante il lavoro», scrive Ong. «I bambini, circa quaranta, sono affidati alle persone di una certa età, divisi in due gruppi. Quelli che hanno da qualche mese a tre anni sono sotto la responsabilità di due mȇ komar, madri di bambini. A quelli più grandi viene insegnato a essere dei giovani rivoluzionari, a cantare Noi bambini amiamo infinitamente l’Angkar», laddove l’Angkar, l’«Organizzazione», è il vertice del Partito unico dei Khmer Rossi. «Si raccontano loro le malefatte della vecchia società», prosegue Ong, «si insegna a non litigare e a non dire parolacce. Tre ore al giorno sono dedicate alla lettura e alla scrittura. Il resto del tempo, lavorano: puliscono il porcile, ramazzano gli escrementi, si occupano del giardino. E hanno anche loro le riunioni di critica/autocritica». L’indottrinamento e il lavoro nei campi erano le caratteristiche principali del metodo per crescere l’uomo nuovo nel regime cambogiano, a partire dalla primissima età.
In Stati assassini, il politologo statunitense Rudolph J. Rummel (1932-2014) riportava la testimonianza del profugo Thoun Cheng, che conferma la separazione dei bambini dai genitori fin dalle primissime fasi del consolidamento del nuovo regime: «Quindi, nel gennaio 1977, tutti i bambini sopra gli otto anni, compresi i giovani dell’età di Cheng, vennero separati dai loro genitori e non venne più permesso loro di vederli, sebbene rimanessero nello stesso villaggio. Vennero divisi in gruppi di giovani, ragazze e bambini, di circa 300 unità l’uno. Il loro cibo, prevalentemente riso salato, veniva raccolto e servito in comunità».
Lo storico francese Jean Louis Margolin, ne Il libro nero del comunismo, sintetizza così il sistema: «Il regime ricorse ad ogni mezzo per allentare o spezzare i legami familiari, ben sapendo che essi costituivano un fulcro di resistenza spontanea al progetto totalitario di una dipendenza esclusiva di ogni individuo dall’Angkar. […] I mariti non avevano più alcuna autorità sulle mogli, né i genitori sulla prole. Si poteva venire ammazzati per uno schiaffo dato alla moglie, denunciati dai propri figli per averli picchiati, costretti all’autocritica per un insulto o una lite. In questo contesto tutt’altro che umanitario va vista la volontà del potere di garantirsi il monopolio della violenza legittima, di dissolvere tutti i rapporti di autorità che sfuggivano al suo controllo».
I rapporti familiari erano a tal punto ostacolati che persino la semplice espressione di un sentimento veniva punita duramente. L’amore doveva essere riservato al Partito-Stato e i sentimenti nei confronti delle persone erano “sentimentalismo”, dunque un costume borghese da denunciare e da sopprimere.
La lezione mai imparata
Ovviamente nessuno crede che oggi si arrivi ancora a questi estremi, in pieno Occidente democratico. Ma questa ideologia non è mai stata stigmatizzata al pari del nazionalsocialismo. Se si sente anche solo un accenno di razzismo e di antisemitismo, giustamente scatta l’allarme sociale. Ma se ritorna un’idea di separazione dei figli dai genitori, per pregiudizio contro la famiglia, questo passa come contributo ordinario al dibattito o come politica da promuovere per il bene sociale.
La dura lezione della Cambogia comunista, con i suoi due milioni di morti (un terzo della popolazione di allora), non è mai stata imparata perché non c’è mai stata una “Norimberga” per i Khmer Rossi. Il processo internazionale, istruito da un regime post-comunista, è stato caratterizzato da tempi estremamente lunghi e si è concluso con condanne tardive solo di alcuni leader comunisti ormai ultra-ottantenni. Quindi il crimine mostruoso commesso meno di mezzo secolo fa è assente dalla memoria collettiva e occorre vigilare molto attentamente, anche su proposte apparentemente innocue, affinché non si ripeta.
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