Le «cannamom» e l’ultimo tabù

Chi sono le donne che vorrebbero sdoganare l’uso di «erba» in gravidanza e allattamento

Cannabis in gravidanza

Frequentano i canali Telegram dedicati all’argomento, seguono profili Instagram cui inviano centinaia di messaggi diretti con domande sul tema, riempiono le stanze virtuali di Clubhouse in cui si dibatte la domenica mattina e di loro ha raccontato un articolo lungo e approfondito pubblicato su One Great Story, la newsletter settimanale del periodico New York. Sono le «cannamom», le numerose donne che negli Stati Uniti d’America fanno uso di cannabis durante la gravidanza, o mentre allattano, o in entrambi i periodi.

Queste donne, cioè, fumano marjiuana secondo loro a scopo “terapeutico”, per combattere la cinetosi gravidica, cioè la classica nausea che più o meno violentemente colpisce le donne in attesa, oppure per favorire il rilassamento e la produzione di latte per il neonato. A giudicare dai racconti e dalle interviste, le madri che decidono consapevolmente di fare uso di stupefacenti non considerano tale comportamento come consumo di droga, sia essa “leggera” (come si vuol far credere) o pesante (come è in realtà), bensì come ricorso alla medicina cosiddetta “naturale”.

Quello che pesa loro è piuttosto lo stigma sociale, per cui si guardano bene dal dichiarare pubblicamente di fumare cannabis in gravidanza o allattamento, e poi il fatto di non poterne parlare liberamente con i medici, rei di non autorizzare alla leggera tale consumo, facendosi forti della scarsità di studi scientifici autorevoli che permettano di pensare che l’uso di stupefacenti da parte della mamma non sia dannoso per il nascituro o per il neonato. In realtà lo è, sia per quanto riguarda i rischi per il bambino nel grembo legati al fumo, fosse pure di semplice tabacco, universalmente noti, sia per quelli specifici che comporta l’uso di stupefacenti. Lo conferma, per esempio, uno studio condotto da Yasmin Hurd, neuroscienziata e direttrice dell’Addiction Institute nel Mount Sinai Hospital di New York, che pure personalmente non è contraria di principio a tale uso.

Infatti l’ultima ricerca della Hurd e del suo team, che deriva dal monitoraggio durato dieci anni di 322 coppie madre e figlio per uno studio in corso e finanziato dal National Institute of Mental Health sullo stress in gravidanza, ha evidenziato che «la placenta delle donne che usavano cannabis mostrava una differenza nella funzione immunitaria rispetto a quelle che non lo facevano, vale a dire che i geni collegati alla risposta immunitaria erano meno attivi rispetto alle donne che si astenevano».

Le informazioni ricavate hanno contribuito a dimostrare come sia possibile prevedere per i loro bambini disturbi futuri legati all’ansia: «L’uso di cannabis in gravidanza può portare a un bambino più ansioso e aggressivo», ha titolato il quotidiano The New York Times.

«I cannabinoidi sono una classe di sostanze chimiche, che includono THC e CBD, che si trovano naturalmente nelle piante di cannabis; il sistema endocannabinoide è una rete di recettori presente in tutto il nostro corpo, in cui le loro molecole si legano e hanno effetto», afferma la Hurd, e continua: «La gente dice: “Oh, ma la cannabis è naturale”, ma le concentrazioni di THC nella cannabis non sono le stesse degli endocannabinoidi naturali».

L’articolista del New York pertanto “traduce”: «l’erba di oggi è molto più forte di qualsiasi cosa i nostri corpi producano e potrebbe gettare il sistema endocannabinoide – che è essenziale per operazioni delicate, come la crescita cerebrale – fuori controllo».

Un altro aspetto che rende più problematico del voluto fumare cannabis in gravidanza o allattamento è quello delle leggi vigenti in alcuni Stati dell’Unione, che vietano l’esposizione dei bambini, che siano ancora nel grembo materno o che zampettino allegramente a spasso, all’inquinamento chimico. Le sanzioni variano da Stato a Stato, e vanno dall’iscrizione sul registro degli abusi sui minori (come accaduto in Arizona) all’arresto per la puerpera che risultasse positiva al THC, come la madre ventenne dell’Alabama nel 2016, poi rilasciata su cauzione. Detto che la «[…] cannabis legale negli Stati Uniti attualmente è un business da 25 miliardi di dollari – e le donne rappresentano circa un terzo del mercato» e che «l’uso da parte delle donne in gravidanza è più che raddoppiato tra il 2002 e il 2017, secondo i dati del National Survey on Drug Use and Health, e una ricerca più recente del centro studi Kaiser Permanente nel nord della California ha dimostrato che il tasso di utilizzo all’inizio della gravidanza è aumentato di circa il 25% durante la pandemia».

Curiosamente, le «cannamom» lamentano due aspetti fondamentali legati a leggi di questo tipo: in primo luogo, le ritengono discriminatorie e razziste, poiché a loro parere esse verrebberro usate strumentalmente dalle forze dell’ordine, dai tribunali e dagli assistenti sociali, con trattamenti ben diversi riservati alle madri bianche e alle madri di colore, tutte ricondotte allo stereotipo della consumatrice di crack modello anni 1980.

Secondariamente, pesa loro che la salute della donna in gravidanza sia intesa in secondo piano rispetto a quella del nascituro, considerata invece prioritaria, come si evincerebbe chiaramente dagli atteggiamenti e dalle affermazioni del personale medico. Ora, a parte il fatto che bisognerebbe intendersi sul concetto di salute: per quanto la cinetosi possa far soffrire la madre, è pur vero che farsi le canne non è esattamente il comportamento migliore per garantirsi vita lunga e sana. Inoltre, senza per forza voler celebrare il ritratto forse sentimentale e zuccheroso della madre che sacrifica se stessa per il benessere dei figli che si sa so’ piezz ‘e core, però proteggere nascituri e neonati è esattamente il compito dei genitori. Si chiama sopravvivenza della specie, e questo sì che è completamente naturale.

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