Last updated on aprile 14th, 2021 at 10:39 am
Poche cose sono connesse alla Pasqua cristiana quanto la simbologia dello spezzare del pane, ed è proprio di un’iniziativa che ha per nome «Il senso del Pane» che “iFamNews” ha parlato con Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore, insieme a Marisa Baldoni, della Casa dello Spirito e delle Arti, «ente no profit dove i valori della fede cristiana, la necessità del dialogo interreligioso e i valori laici che pongono al centro la dignità di ogni persona, collaborano per incoraggiare e accompagnare la crescita e lo sviluppo dei più deboli provenienti da tutto il mondo», come si legge sul sito web della Fondazione.
Che cos’è, in breve, «Il Senso del Pane»?
È un progetto che, attraverso la produzione artigianale di ostie destinate alle celebrazioni della messa, cerca di offrire un lavoro e di restituire dignità a persone fragili nel senso più ampio del termine: uomini e donne bisognosi tanto di un riscatto personale quanto di strumenti concreti per riprendere in mano la propria vita. Le ostie prodotte vengono sempre donate a qualunque chiesa ne faccia richiesta, in Italia e nel mondo.
Dove nasce questo progetto?
«Il senso del Pane» nasce nel carcere di Opera, nell’hinterland milanese, dove a partire dal 2016, con un primo sostegno di Fondazione Cariplo e in stretta collaborazione con l’allora direttore del carcere Giacinto Siciliano, la nostra organizzazione ha avviato il primo “laboratorio eucaristico”.
Avete dato vita anche a una Cooperativa…
Sì, per assumere con regolare contratto le persone detenute che lavorano nella produzione artigianale delle ostie. Le persone detenute sono state scelte grazie all’aiuto del progetto Sicomoro, che è un’iniziativa che cerca di sviluppare percorsi di “giustizia riparativa”.
In che senso “riparativa”?
La giustizia riparativa è l’opportunità che la stessa Costituzione italiana, all’articolo 27, offre a chi ha commesso reati che devono essere sanzionati dalla legge: non solo la pena come “punizione”, ma il recupero della libertà del colpevole, per giungere alla rinascita della sua persona e al suo reinserimento nella società, anche attraverso dei gesti di riconciliazione con le vittime.
Un’ipotesi difficile da immaginare…
Difficile, ma possibile. Per esempio grazie all’incontro e al dialogo fra persone che hanno commesso crimini gravi e i familiari delle vittime di crimini analoghi. Un dialogo che permette di condividere la reciproca sofferenza e desiderare insieme un futuro migliore. La giustizia riparativa fa nascere nella persona detenuta la vera consapevolezza del male commesso, e nello stesso tempo le offre percorsi concreti per una vita nuova.
Nell’ambito di questo impegno, «Il senso del Pane» realizza un paradosso: questo “pane”, che esce dalle mani di chi ha commesso un delitto, di chi ha ferito o ucciso, arriva fino alle mani dei sacerdoti e diventa Corpo di Cristo, quindi fonte di pace e di gioia. Le ostie sono state donate e consacrate anche dal Santo Padre.
Non si tratta, però, di un progetto strettamente confessionale…
No, assolutamente. Anzi: il germe da cui è nato, è stato proprio il desiderio di comunicare non solo ai credenti, ma a tutti, il Mistero dell’Eucaristia e la sua fecondità di bene. Per un credente quel pane è Dio, è il cibo che disseta la nostra sete di infinito, ma per tutti può essere una metafora della trasformazione, della rinascita, della resurrezione umana. Non vi è alcun vincolo religioso per partecipare al progetto: vi hanno aderito per esempio giovani musulmani e persone non battezzate.
Dopo i primi esordi, come si è concretizzato il lavoro del laboratorio del carcere?
Il progetto si è sviluppato in maniera straordinaria quando Papa Francesco ha ricevuto in dono le ostie, le ha consacrate e ha benedetto gli artigiani che le avevano prodotte. Da quel momento sono state le diocesi, i monasteri e le parrocchie a richiederle, a parlarne con i fedeli e a raccogliere offerte piccole e meno piccole che si sommano al sostegno prezioso dei due donatori che hanno dato il via al progetto e che ancora ci affiancano attivamente.
Si tratta di offrire alle persone detenute la possibilità di un mestiere “ponte”, che restituisca dignità a chi ha sbagliato ma che offra anche una base di professionalità per continuare poi con le proprie gambe. Non si tratta, nel modo più assoluto, di assistenzialismo, e anzi chi ha ricevuto sostegno può darlo a sua volta ad altre persone fragili.
Faccio l’esempio di Cristiano Valanzano, che dopo sei anni di lavoro nel laboratorio, di cui era coordinatore, oggi beneficia dell’Articolo 21 O.P. relativo al lavoro esterno al carcere e svolge la mansione di aiuto cuoco a CasArché, una realtà che accoglie ragazze madri vittime di gravi sofferenze, a volte di violenze e di abusi, e offre loro l’opportunità di imparare un mestiere e di guadagnare l’indipendenza per sé e per i propri figli. Anche qui è nato un “laboratorio eucaristico” e Cristiano insegna alle madri “l’arte” di fare le ostie. È in qualche modo un circolo virtuoso.
Le ostie prodotte dal laboratorio sono richieste anche all’estero, diceva.
Si, all’inizio le donavamo dal carcere in tanti Paesi, poi, sollecitati dalle comunità straniere, abbiamo fondato, grazie all’aiuto di persone generose, nuovi laboratori nel mondo: per ora sono 14. In pratica oggi lavorano in Italia 15 persone, mentre all’estero più di 50 persone.
Ciascuno dei nostri laboratori ha la garanzia della copertura economica fino a tre anni, considerato che abbiamo verificato che 2-3 anni è il tempo fisiologico che serve alle persone per essere aiutate nel loro reinserimento sociale e lavorativo. Non mi riferisco al carcere, evidentemente, dove le variabili sono differenti.
Ci parli dei progetti che portate avanti nel mondo.
Guardi, un esempio toccante è quello di Trabzon, in Turchia. Nel Paese la commercializzazione delle ostie è vietata dalla legge, mentre è possibile la donazione. Abbiamo da poco impiantato un laboratorio che impiega alcune donne che vivevano in stato di schiavitù, costrette alla prostituzione, e che oggi produce ostie che vengono richieste sia dalle comunità turche sia altrove, dalla Georgia per esempio, dove ugualmente è difficile procurarsele.
Qualcosa di analogo è accaduto in Mozambico, in Africa, dove ci occupiamo anche del sostegno alimentare alle persone più bisognose.
A Buenos Aires, in Argentina, opera un altro laboratorio che impiega ragazze e ragazzi che provengono da storie di dipendenza dagli stupefacenti. I video che vi ha girato il regista argentino Sergio Serrese sono estremamente significativi e rappresentano molto bene il senso del nostro lavoro.
E poi lo Sri Lanka, l’Etiopia, Betlemme…
In Brasile esiste un carcere-modello in cui a breve saranno assunte otto persone per avviare una produzione analoga.
Avete altri progetti?
Sì, per esempio il laboratorio di liuteria, sempre nel carcere di Opera, e la Rete delle Piccole Orchestre dei Popoli, sparse per il mondo, poiché la musica è un linguaggio universale capace di unire popoli di lingua, religioni e culture diverse. Non vedo l’ora di poter di nuovo viaggiare, alla fine dell’emergenza sanitaria, per andare a incontrare di persona tutti i nostri amici…