Last updated on Febbraio 15th, 2020 at 12:17 am
Il 30 gennaio si è svolto a Roma l’importante convegno Medicina e sanità ai confini della vita: il ruolo del medico, organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI). Per gentile concessione dell’autore, a suo tempo “IFamNews” ha pubblicato la relazione tenuta dal professor Filippo Boscia, presidente dell’AMCI. Oggi l’importante presa di posizione dell’AMCI contro l’eutanasia rende la relazione del prof. Boscia ancora più cogente e attuale. Ne riproponiamo quindi una sintesi fedelissima, più facilmente condivisibile sui social media, preparata per punti da considerare virgolettati identici all’originale da Barbara Santambrogio di “IFamNews”.
- Da un po’ di anni in Italia il mondo della Sanità è in subbuglio, soprattutto al Sud. I conti delle ASL e degli ospedali non tornano. Gli amministratori si affannano per metterli in equilibrio tagliando su alcune spese importanti, cioè riducendo il personale, non coprendo i posti in organico resi vacanti dai dipendenti che sono andati in pensione, aumentando i ticket sulle prestazioni o negando farmaci costosi prima concessi. Tutto ciò danneggia in modo drammatico sia i pazienti (i “cittadini-utenti”), sia le famiglie, private di politiche di sostegno. Affrontiamo oggi i problemi legati all’immigrazione e alla transizione demografica, epidemiologica, culturale, economica e sociale. Viviamo in una situazione di povertà economica, in una società che ha perso la retta visione dei valori inalienabili e che pian piano si è resa ingiusta e si presenta sperduta. È una società impoverita che eleva a gran voce la sua grande domanda di umanità, di relazioni, di aiuto e di cura. L’inquietudine non riguarda solo malati o disabili, ma anche i medici, che debbono essere messi nelle condizioni di continuare a curare e a prendersi cura anche quando non si può guarire. In questo momento le questioni di cura, di formazione, di finanziamento e gestionali rappresentano una vera emergenza.
- Le innovazioni tecnologiche sono estremamente importanti, ma gli stessi strumenti possono essere meglio utilizzati se vi sono la mano e lo sguardo del medico. I medici non devono abdicare alle macchine la loro essenziale funzione: la semiotica, la capacità di osservare, di curare, di intervenire, di seguire la famiglia e prevedere eventuali patologie, affinché massimo sia il vantaggio per la persona e per il sistema sanitario nella sua complessità.
- Si assiste oggi a una deriva dell’identità medica che pone in difficoltà innanzitutto il paziente, ma anche la famiglia e l’ambiente. Una riflessione dunque è necessaria intorno al ruolo dei medici, in relazione alla loro attività, ma anche alla tenuta dell’economia. La scienza medica, dalle radici profondamente umanistiche, non può continuare nel perverso percorso di adattamento alla tecnologia, al contrario gli strumenti e l’organizzazione debbono tener conto delle radici della medicina e della sua stessa esistenza e deontologia.
- La spinta alla ricerca deve essere continua ed inquieta sia per i medici sia per i ricercatori, ma altrettanto inquieta deve essere la ricerca di umanità, in tutt’uno con la scienza. Ma se da un lato abbiamo Regioni che riescono a garantire servizi sanitari adeguati in un contesto di compatibilità finanziaria e di discreta soddisfazione dei cittadini, dall’altro abbiamo realtà regionali nelle quali si registrano estreme problematicità.
Discriminazioni e nuovi sistemi
- Esiste anche la questione della grave discriminazione legata alla selezione tra il cittadino malato e il cittadino sano. La salute diseguale si riscontra sempre in relazione alla fortuna o sfortuna di risiedere in un territorio dotato di servizi. Aspetti contraddittori sono i livelli essenziali di assistenza, non garantiti e non esigibili in modo uniforme. Una seconda contraddizione è che il diritto alla salute va progressivamente trasformandosi da diritto assoluto in diritto relativo: l’impossibilità economica di soddisfare completamente la domanda di salute induce a criteri di allocazione delle risorse attraverso una selezione delle priorità sanitarie. La scelta delle priorità condurrà inesorabilmente a compiere scelte tragiche che potranno escludere dall’assistenza talune aree considerate essenziali, privando parte della popolazione del sostegno del servizio pubblico.
- A questa conclusione perviene la stessa Corte Costituzionale quando annovera il diritto alla salute tra i cosiddetti diritti relativi, cioè situazioni giuridiche di vantaggio la cui tutela è condizionata dalla discrezionalità del legislatore. (Corte Costituzionale sent. 23 luglio 1992, n. 356, in Giur Cost., 1992, p. 2834 ss.). In occasione dell’approvazione delle leggi finanziarie, nel decidere quali risorse destinare al fondo sanitario nazionale, lo Stato avrà il compito di determinare concretamente gli ambiti di tutela di questa garanzia. L’adozione di criteri meramente economici, però, potrebbe condurre ad una sorta di “eutanasia sociale per pietà, forse anche demedicalizzata”. Di qui la spinta ad ottenere leggi pro-eutanasiche. Si sostiene in proposito che l’interruzione di un’assistenza costosa agli individui anziani garantirebbe maggiori risorse a favore della parte della popolazione ancora produttiva e, pertanto, considerata più utile socialmente. Il razionamento dell’assistenza basato sull’età e sulla condizione di terminalità dei pazienti mette in discussione la tenuta stessa del principio di eguaglianza. Una volta stabilita una lista di priorità cui destinare il finanziamento pubblico, sarebbe inaccettabile un’ulteriore declinazione delle prestazioni sanitarie basata sulla durata e qualità della sopravvivenza, discriminatoria dei soggetti più deboli.
- Si registra attualmente la spinta a introdurre nel contesto nazionale nuovi sistemi, definiti piani assicurativi assistenziali integrativi e volontari, che hanno ricevuto l’incentivo della defiscalizzazione. Se si incentivano e si defiscalizzano le spese per piani di sanità integrativi, certamente si avrà il risultato di far diminuire le risorse destinate al Servizio Sanitario universalistico e solidaristico. La contraddizione è tanto più marcata se si pensa che spesso questi piani vengono proposti come benefit nelle contrattazioni di lavoro, collegando sempre di più il diritto alla salute con il possesso di un’occupazione. Si intravede all’orizzonte un’ulteriore contraddizione legata all’opting out, cioè la scelta di fare a meno della sanità pubblica se ci si può permettere una copertura privata. In Italia questa possibilità non c’è ancora, ma uno scenario del genere non tarderà a diventare verosimile se si instaureranno meccanismi disincentivanti. Per comprendere questa problematica, il miglior esempio è il superticket calcolato in base alla situazione economica, per cui oggi chi ha un reddito molto alto paga più degli altri, pur sostenendo già con le proprie imposte soggettive il SSN comune.
- Occorre però rendersi conto che in questa situazione “tecno-mediata” la salute sarà gestita in modo rapido e freddo e la nostra stessa vita cambierà volto e il contro-umanesimo, l’inumano, rischia di contagiarci tutti. Un aspetto strettamente legato a quello relazionale è quello della parcellizzazione globale delle cure, sempre più iper-specialistiche e sempre meno coordinate, un fenomeno già in atto che reca in sé tanti elementi contraddittori. Di pari passo avanza la necessità organizzativa dell’ottimizzazione del tempo (vedi il “tempario”, istituito e poi abolito nel Lazio: medici con “la sveglia al collo” spinti da un’impropria organizzazione a vivere le relazioni in maniera frammentata e parcellizzata).
Siamo in una situazione di emergenza
- Penso che oggi i medici non possano sottrarsi ai cambiamenti delle gestioni finanziarie, dai quali non riescono a svincolarsi, con il rischio di essere travolti. Continuando a subire queste obbligatorietà, ci ritroveremo in condizione di non essere più in grado di fornire salute, perché diventeremo noi stessi medici uomini senza speranza. Occorre un cambio dell’approccio culturale della professione medica, oggi c’è bisogno di una figura professionale non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Ciò prevede anche investimenti economici e di tempo per la formazione post laurea che vanno trovati e resi disponibili. La figura del medico deve necessariamente cambiare, viste le tre macro-tendenze mondiali: il progresso della tecnologia verso digitalizzazione e automatizzazione, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e infine la globalizzazione.
- Siamo già in una situazione di emergenza; la popolazione over 65 anni sarà in forte crescita negli anni a venire, con aumento sostanziale dell’indice di vecchiaia (il trend dell’invecchiamento cresce dell’1% all’anno per gli over 65) e nei prossimi 6 anni avremo a che fare con un 6% in più della popolazione mondiale invecchiata. Il PIL certamente non potrà aumentare in proporzione e questa è una delle questioni più problematiche che consegniamo alle nuove generazioni. I servizi alla persona in termini di salute, cura, assistenza, previdenza e qualità di vita andranno in crisi.
- È importante riaffermare la “questione della prossimità”, declinata in relazione ai bisogni della persona. Ma ciò comporta un importante cambiamento sociale: non possiamo continuare a parlare di qualità ambientale, senza affrontare il rispetto della vita in assoluto e di quella umana in particolare. Occorre un’opera di intermediazione sociale e culturale oggi vacante che non può essere lasciata solo alla evoluzione tecnologica: dobbiamo educare la popolazione al welfare. Bisogna infondere in tutti i cittadini il concetto di consapevolezza, mantenere la schiena dritta nel rispetto dell’etica, assicurarci noi medici e operatori sanitari che non vengano mai infranti i principi deontologici di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità, che solo se condivisi potranno contribuire al rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona e alla difesa responsabile e competente della sua integrità fisica e morale.
- La nostra attività deve essere spesa non in una dinamica individualistica, ma in una dinamica personalistica che comprende il diritto fondamentale di tutti alla salute. L’etica in questo campo si configura come saper fare la scelta giusta in nome di quei valori irrinunciabili e supremi che rappresentano i canoni di coesione sociale e di interesse comunitario. La medicina si umanizza non quando si elimina la malattia ma quando si aiuta l’uomo a viverla e condividerla come esperienza di libertà sia nel tempo della sofferenza che nel tempo della cura.
La libertà e la fede
- La mancanza dell’esperienza della libertà umana e la mancanza dell’esperienza della fede ci pongono oggi più che mai in corsa verso utopie che purtroppo dimenticano il cuore di ogni vicenda umana. Sui temi legati a fragilità, povertà, solitudini, isolamenti, emarginazione, ghettizzazione, non autosufficienza e debolezza entra in gioco qualcosa di decisivo che ha a che fare con la tenuta stessa della costruzione sociale nel suo insieme. Comunicare il sociale significa conoscere ed affrontare tutti gli stereotipi culturali e tutte le complessità. Significa promuovere un benessere organizzativo accessibile a tutti, cioè un nuovo modello di sviluppo sociale, perché curare significa al tempo stesso socializzare e prevenire. Curare significa proporre nuove azioni e nuovi punti di vista, perché non è soltanto lo stare accanto, ma lo “stare con” e dobbiamo includervi i processi di inclusione sociale, ma anche questioni meno complesse ma irrinunciabili riguardanti la dignità della persona che spesso vengono dimenticate nella ordinarietà di un’assistenza a ostacoli (per esempio, l’igiene delle persone cronicamente allettate). Quando parliamo di non autosufficienza o della cosiddetta “terminalità non terminale” occorre interrogarsi su cosa significhi assistere. Prendersi cura non significa dispensare terapie farmacologiche oltre ogni ragionevole schema, ma occorre uno sguardo d’insieme, una “umanitudine”, una relazione nuova tra curante e curato che trasformi i curanti in attori della cura, in grado di colmare gli spazi di solitudine. Occorre poi che questi rispettino la proporzionalità dei loro interventi e le prospettive di qualità oggi negate che rappresentano i nodi problematici dei servizi alla persona.
- Gli esperti devono essere accreditati e certificati. Solo così la sfida della palliazione nelle residenze socio-sanitarie potrà compiersi e delineare scenari e prospettive ottimali. In futuro non escluderei la necessità della riabilitazione nella cronicità e nella non autosufficienza, come un grande valore aggiunto attualmente non dispensato ma che tutti desiderano.
- Fra tanti “impedimenti” (l’indifferenza, negligenza, imprudenza del personale di cura, pur con le dovute, non poche, eccezioni) vi è quello etico. È giusto dire, brutalmente, al malato tutta la verità sulla sua malattia? Molti medici sono convinti che lo sia. Io credo che bisogni valutare caso per caso e tenere conto della sensibilità, della cultura, della fragilità e dello stato emotivo del paziente. È vero che da un po’ di anni esiste il “consenso informato”, che consiste nell’informare il paziente su qualsiasi atto medico si debba fare su di lui, ma c’è modo e modo per farlo. Bisogna tenere presente anche il semplice buonsenso. Nel libro “Per il bene del paziente” di Valter Santilli, nella prefazione firmata dal musicista Mogol, mi ha colpito questa frase: “La cura delle persone è cosa diversa della cura delle malattie. È molto di più”. Ma quanti medici lo sanno o, sapendolo, lo mettono in pratica? Recentemente mi ha molto turbato il comportamento di una dottoressa chiamata in consulenza per una degente. Arriva in fretta, mette alla porta un familiare della paziente e le chiede subito brutalmente: “Signora, da quanti anni ha questo tumore del sangue?”. La paziente ammutolisce per un po’ e poi, sconvolta, in lacrime, risponde: “Non so di avere un tumore”. La mia domanda è d’obbligo: così si fa il medico? E non mi si dica che raccontando questo episodio sono uscito fuori tema e che l’episodio non ha nulla a che vedere con i bilanci in rosso degli Ospedali.
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