Last updated on marzo 14th, 2020 at 07:09 am
Tecnologia, incontri in rete, realtà virtuale: i progressi della tecnica informatica spalancano possibilità inesplorate. Pochissimi anni fa sarebbe stato impossibile l’organizzazione che ha permesso, in una manciata di giorni – se non di ore –, l’ attuazione di modalità di smart working e di lezioni scolastiche online per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Di pochi mesi fa, addirittura, l’esperienza dei primi interventi chirurgici da remoto.
La tecnologia, si sa, è solo un mezzo: non ha in sé valore né positivo né negativo. Il valore è dato dal fine per il quale uno strumento viene utilizzato. Ogni scoperta scientifica porta in sé la possibilità di un uso contrario al bene: l’esempio più classico è l’applicazione della fissione nucleare per la realizzazione della bomba atomica. Esistono altri esempi, molto attuali, di come la tecnologia possa trasformarsi in un estremo tentativo di manipolare la natura umana.
Un caso, portato alla ribalta dal documentario trasmesso dell’emittente televisiva sudcoreana Munhwa Broadcasting, I met you, apre interrogativi importanti. Si tratta di un video di una decina di minuti, che mostra una madre mentre “incontra” la figlia morta quattro anni prima, tramite un visore per la realtà virtuale e dei sensori applicati sul corpo. Il documentario mostra Jang, la madre, che si muove spaesata su un green screen – lo sfondo degli “effetti speciali” cinematografici – finché anche al pubblico è dato di partecipare alla sua “visione”: una bimba di sette anni, ossia l’immagine virtuale della defunta piccola Nayeon, saltella in un prato e raggiunge la mamma. L’immagine – animata e in 3D – “istruisce” la donna su come muoversi nel suo “mondo” e la “trasporta” in un ipotetico iperuranio, fatto di letti a baldacchino, palloncini colorati e animali immaginari. Lì la donna e la “bambina” mettono le candeline su una torta di compleanno, cantano Tanti auguri a te, esprimono “desideri”: «che papà smetta di fumare, che i fratelli vadano d’accordo, che la mamma non pianga…». Invece, ovviamente, piangono tutti: la mamma, il papà e i fratelli, spettatori anch’essi dell’evento e contemporaneamente ripresi per essere mostrati nel video. Del resto chiunque non abbia la sfera emotiva di un bradipo sentirà inumidirsi gli occhi. Il quotidiano la Repubblica parla di «moto emozionale» che annulla «il confine tra la simulazione e la vita reale», e il Corriere della Sera saluta «una nuova era dell’innovazione. Spazi digitali in cui immergersi anima e corpo per “staccare” dalla quotidianità».
La realtà è sogno?
Qualcosa però stride. La donna del video più volte tenta, tremante, di abbracciare l’ombra della figlia. Le braccia restano sospese per aria; solo la mano guantata riceve “sensazioni” generate da sensori. Non è esperienza, infatti, è illusione. Non è consolazione, ma estraniazione dalla realtà. La tecnologia ha reso possibile quel che l’uomo aveva già in qualche modo immaginato, e giudicato, in letteratura: lo sanno bene i fan di Harry Potter. Nella saga del giovane mago esiste un oggetto magico, la Pietra della Resurrezione, capace di rievocare i defunti, ma non di far sì che la loro morte non sia mai accaduta: tornano, ma come spiriti, fantasmi, non persone viventi. Il primo possessore della Pietra della Resurrezione, Cadmus Peverell, tentò di riportare l’amata defunta dal mondo dei morti: “incontrandola” solo sotto le specie di un fantasma, disperato per l’impossibilità di ridarle veramente la vita, si uccise. Già c’era lo Specchio delle Brame, nel quale Harry si poteva vedere abbracciato dai genitori scomparsi, ma il preside della scuola di magia di Hogwarts, Albus Silente, ne aveva spiegato l’inconsistenza: può «mostrarci quello che desideriamo più profondamente e più irresistibilmente in cuor nostro», ma «non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere».
Perché la realtà esiste, oggettivamente, documentabilmente: è un’evidenza.
Così come oggettivo e documentabile è lo strazio di una donna, cui la malattia ha strappato la figlia. Un casco e un guanto di elettrodi non possono restituire un defunto all’affetto, superfluo doverlo sottolineare. Ma, soprattutto, non sono «genuine» le emozioni provate in questa esperienza limite, tanto quanto non è genuino il sollievo provato da un adolescente quando si fuma una canna. Quel che è genuino è invece il desiderio che la morte non sia l’ultima parola sull’esistenza. Il drammaticissimo documentario sudcoreano qualcosa insomma l’insegna. Insegna che l’immortalità cui l’uomo aspira ha qualcosa a che fare con la quotidianità: che la vita non è un insieme di sequenze e circostanze da cui sfuggire o da cui scampare, ma l’occasione per esclamare «Piovono miracoli!».