Last updated on Ottobre 25th, 2020 at 03:28 am
La violenza nei confronti delle donne può assumere molti aspetti e molti tratti, ma sempre di violenza si tratta.
Può vestire i panni del maschio tossico, del padre o del marito che picchia, sfregia o uccide, del mostro che stupra, della strega che escinde o infibula le bambine, del sensale che combina le nozze per spose di nove anni. Qui o altrove.
Ma esiste una violenza contro le donne che agisce più subdolamente, che non tocca il corpo (non necessariamente, non sempre), ma che ferisce in modo estremamente profondo e di cui purtroppo molte donne pare non si rendano conto. Questa violenza segue due linee principali: la riduzione del corpo femminile alla funzione puramente sessuale e la negazione della specificità della donna. La prima è sotto gli occhi di tutti da molto tempo e percorre trasversalmente la vita quotidiana, il cinema, la televisione, la moda, le riviste. È facilmente individuabile, sbatte in copertina seni e glutei levigati, anche quando si dichiara campagna contro il body shaming come accaduto di recente per la rivista Vanity Fair e il ritratto senza veli (ma con filtri e Photoshop, si mormora) della bella soubrette e attrice Vanessa Incontrada.
Arriva a coinvolgere i corpi delle bambine, come nell’oramai celeberrimo Cuties, pellicola proposta da Netflix, che “iFamNews” avversa con orgoglio con una petizione che (mai ci si stancherà di dirlo) tutti sono invitati a firmare e che in Texas finirà in tribunale.
La seconda è più vigliacca. È un’aggressione di una violenza inaudita che prende la donna, il suo corpo, la sua differenza assoluta e innegabile rispetto al maschio, le specificità supreme per prima cosa del suo corpo che sono le mestruazioni, la fertilità, il parto, l’allattamento e le rendono artatamente e infingardamente patrimonio comune e condiviso.
Non è così. Solo le donne hanno le mestruazioni, solo le donne possono partorire, solo le donne possono essere lesbiche, solo le donne possono financo abortire, checché ne pensi la persona transessuale che ha invocato l’invenzione del trapianto di utero per poter essere il primo transessuale ad abortire, e qui non si sa se avvertire nausea o brividi.
Affermare queste verità è femminismo vero e autentico, come per esempio le femministe radicali di RadFem hanno più volte sottolineato, pagando di tasca propria con gli insulti di un certo mondo LGBT+ che vuole fare della propria pretesa legge.
“iFamNews” ha già raccontato ai propri lettori di Emme Kristelle, transessuale entrato nel board dell’associazione Red Tent Australia, parte della catena di empowerment femminile incentrata sulla potenza della fertilità e del ciclo mestruale diffusa in tutto il mondo.
Ha già raccontato del nuovo colore Pantone rosso «Period», “rosso mestruazioni”, inneggiante all’energia e al vigore femminile, che nel post di presentazione su Facebook definisce gli individui di sesso femminile «persone che mestruano», come se “donna” fosse parola vergognosa, da far scivolare dietro le quinte, per non offendere qualcuno… non le donne, certo, ma chi donna si sentisse, pur senza esserlo.
In tutti questi casi, grande assente è la maternità, logica e naturale conseguenza di tale fertilità tanto inneggiata a parole quanto negata nei fatti. Il bambino non c’è e se c’è si può sempre eliminare, l’utero è mio e lo gestisco io. E guai a ricordarmelo, con un nome su una croce al cimitero.
Esiste una terza via per aggredire le donne. È comoda, agevole, non sporca le mani e, anzi, permette di fare bella figura in un certo mondo cheap&chic.
È la banalizzazione.
Trova uno sponsor (Nuvenia), trova uno scopo benefico o presunto tale (la CRI, Croce Rossa Italiana), trova una location carina che attragga il giusto target in termini di età, sesso o gender, censo, ceto e mestiere. A Milano, ovvio. Organizza una mostra temporanea (anzi, una Temporary Exhibition) dal venerdì alla domenica (certo, chi se la filerebbe più a lungo?), a metà ottobre, quando i week end fuori porta non si fanno più ma si ha ancora voglia di uscire, dandosi arie da intellettuale. E intitola la mostra Viva la vulva.
Esponi poi opere di artiste donne (eh già, perché la donna non è uomo, e viceversa) e sbatti in faccia… beh, sì, sbatti in faccia ai visitatori l’organo genitale femminile. Diciamo pure che Gustave Courbet al Musée d’Orsay ha uno spessore ben diverso.
Sostieni che si tratti (al solito) di empowerment e incassa. Non in denari, l’ingresso infatti è gratuito, così si fa numero. Ma incassa certamente il plauso e l’approvazione perché sì, tu sì che fai qualcosa per le donne.
Non è vero. È una bugia. È commercio e marketing e pubblicità e tutto quanto si è imparato a fare così bene. Soprattutto è un’aggressione, vera e propria, che violenta le donne e le espone nell’intimità più profonda e, sì, sessuale allo sguardo di tutti. Sguardo neppure lubrìco. Sguardo freddo, distante, da entomologo.
L’unico sguardo che, evidentemente, qualcuno vuole rendere alle donne.
È un’aggressione. E chi lo nega è complice.
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