Last updated on marzo 9th, 2020 at 03:31 am
La Lombardia è chiusa. Da ieri sera, grosso modo attorno alle 22:30, minuto più minuto meno. Ero in pizzeria, con la famiglia, a sfidare non il virus, ché sarebbe idiota, ma la paura, la mia paura, la paura degli altri, quella che serve per dimostrare coraggio, ma a cui non ci si deve mai arrendere. Ero in pizzeria in centro a Milano con la mia famiglia e la notizia ha raggiunto tutti, clienti, gestori, tutti. Orami le notizie, via social, via telefonino, arrivano prima delle sensazioni. Nessuno sembrava crederci, pareva (con tutto il rispetto, m’inginocchio) un “nostro Undici Settembre”. Nessuno della nostra generazione ha mai pensato potesse accadere una cosa di questo genere. La regione traino, la locomotiva d’Italia che si ferma e che si paralizza, vinta da un male infinitesimale eppure enorme. Vinta, ma non sconfitta, la Lombardia: in queste ore lo ripetiamo senza sapere se ci crediamo sul serio o se è solo una cattiva abitudine di scaramanzia superstiziosa.
La Lombardia chiusa sembra cosa impossibile, è incredibile. Eppure è così, ai fatti non si può che rassegnarsi. Ora non bisogna minimizzare, ma nemmeno esagerare. La retorica sulla globalizzazione solitamente è pessima. La globalizzazione è antica quanto l’essere umano. Un antievoluzionista incallito come il sottoscritto può concedere tranquillamente un secondo all’idea che l’Homo sapiens abbia conquistato il mondo uscendo dall’Africa, prima globalizzazione. Poi gli imperi ecumenici, come li chiama il filosofo tedesco-americano della politica Eric Voegelin (1901-1985), in primis quello di Alessandro Magno (356-323 a.C.). E poi l’impero romano, globalizzatore di tutto il mondo allora conosciuto anche attraverso l’inglese di allora, il latino, e poi il cristianesimo, e ancora, in negativo, l’Illuminismo e la Rivoluzione, e, ovviamente, in bene, la forza della civiltà europea, con il suo portato di scienza, tecnica, economia, e così via. La globalizzazione non è una cosa cattiva. Non è nemmeno una cosa acriticamente buona. È anzitutto un fatto (un altro fatto), e quindi uno strumento oppure una iattura a seconda di come la si anima. La globalizzazione, si dice, è la Ferrari della pandemia oggi. Forse perché del buon senso abbiamo finito le scorte al pari di quelle dell’amuchina e quindi quello non lo possiamo globalizzare. Il problema è piuttosto il male, che adesso, concretamente, prende il volto, bianco, con le orbite scavate e la mandibola piegata in un ghigno senza sorriso, della malattia.
Il coronavirus non contagia più di altre malattie dello stesso ramo. Il coronavirus ci fa paura perché continuiamo a dirci che fa paura. Il coronavirus, certo, fa poi paura perché non abbiamo una cura, ma forse è l’occasione buona per riaprire gli occhi davanti allo specchio. La tradizione giudeo-cristiana sa benissimo che i mali materiali sono conseguenza del male primigenio, il peccato, e quindi sa che non ce li caveremo mai di dosso da questa parte del Cielo. Bisogna imparare dunque a conviverci, come dicono i bravi confessori, senza mai però mai cedervi. Esattamente come dobbiamo imparare a conviverci, noi lombardi e noi non lombardi, con la Lombardia chiusa. Ed è qui che mi torna in mente il momento in cui ho appreso la notizia, ieri sera in pizzeria, nel cuore della nuova ma ora semispoglia movida di Milano, con la mia famiglia, lì a sfidare, tremante, tremando, timore e tremore, la paura, la paura mia e la paura degli altri.
A costo di essere scontato, è da qui che ripartiremo. Non uso mai, scrivendo, il soggetto plurale, un po’ collettivo un po’ maiestatico, perché mi urta i nervi, ma adesso lo faccio consapevolmente. L’ora presente è davvero l’ora del “noi”. Uno più uno più uno, noi. È dalla famiglia che ripartiremo. Siamo costretti, dalle circostanze, a restarci chiusi dentro, e ne faremo virtù. Riscopriremo cosa significa famiglia, cosa vuol dire che la famiglia regge la società persino nelle ristrettezze, nelle avversità, nella buona e nella cattiva sorte. La famiglia si serrerà in sé per aprirsi, e da qui la Lombardia ripartirà, facendo ripartire il Paese. Non è l’happy ending buonista con cui bisogna intervenire adesso, per iscritto, per rincuorare i ventitré lettori di “iFamNews” con un fervorino non richiesto. È la realtà, ancora, sempre.
Ci inseguono i messaggi del capo del governo, del capo dello Stato, del capotreno. Con il rispetto dovuto a tutti, persone e ruoli, non ci interessano. Il messaggio che ci trafigge è lo sguardo eloquentemente silenzioso di tua moglie, di tuo marito, dei tuoi figli, di tua mamma, di tuo papà, dei tuoi fratelli, delle tue sorelle. Non c’è lo Stato, adesso, non ci sono le strutture; ora c’è la famiglia. Mai astratta, sempre dannatamente concreta con le sue difficoltà, le sue contraddizioni, le sue storture, ma cosa più fondamentale, etimologicamente, di tutte. Riempiremo il vuoto che il silenzio lombardo diffonde ora come una nebbia di tristezza in una brughiera di angoscia con la voce delle famiglie, di quelle piccole, grandi famiglie rabberciate e meravigliose che sono la nostra realtà.
Non sappiamo fino a quando la serrata durerà. La guarderemo però diritta negli occhi, schiena diritta, angoscia nel cuore, voglia di ricominciare. Ci sarà chi non reggerà: aspetta un braccio da noi.
La Lombardia chiusa. Io ci vedo una metafora del nostro tempo e nel nostro mondo, apparentemente globale, in realtà spesso povero e solo. O questa è la fine, e allora prepariamoci, perché vale la pena. Oppure ci sarà un nuovo inizio, e già ci stiamo lavorando. Lombardi e non lombardi non deludetevi, c’è bisogno di braccia, di schiene, di menti e di cuori per riaprire il nostro mondo. Numquam dedere familiae.