La fede di Amy Coney Barrett è importante, ma ininfluente

Quando un buon cattolico è un buon cittadino, e tutto il resto è solo malvagità

Il titolo di questo articolo l’ho disinvoltamente “rubato” a un pezzo firmato dal padre gesuita Thomas J. Reese sul settimanale dei gesuiti statunitensi, America. L’ho fatto perché è un titolo perfetto a coronamento di un articolo magistrale.

Ora, padre Reese non è dei “nostri”. Classe 1945, oggi commentatore per l’agenzia Religion News Service, già autore di una rubrica sul settimanale National Catholic Reporter ed ex direttore di America, ritiene che l’aborto sia una battaglia persa e che al più ci si possa limitare a contenere il numero dei morti. I “nostri”, infatti, si riconoscono piuttosto nella risposta con cui il cardinal Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York e già presidente della Conferenza episcopale dei vescovi cattolici degli Stati Uniti d’America, ha detto a padre Reese, tanto garbatamente quanto intransigentemente, che si sbaglia di grosso. Per questo l’articolo di padre Reese che ho “saccheggiato” è tanto più oggettivamente vero.

La nomina del giudice Amy Coney Barrett per la Corte Suprema federale in sostituzione della defunta Ruth Bader Ginsburg (1933-2020), operata dal presidente Donald J. Trump il 26 settembre, ha scatenato l’inferno e non solo i media. Parecchi la giudicano inopportuna perché il giudice Barrett è credente, cattolica, e tutta d’un pezzo. Ma le critiche nei suoi confronti sarebbero piovute a raffica anche se fosse stata di altra confessione religiosa. Il punto, infatti, non è quale fede, ma la fede.

Capiamoci. Tutti hanno una fede religiosa: negli Stati Uniti in misura maggiore che in altri Paesi o per lo meno negli Stati Uniti la vivono anche pubblicamente più che in altri Paesi. Negli Stati Uniti la gran parte di chi vive pubblicamente la fede religiosa è cristiano. Il punto però è che tutti hanno una fede religiosa, nel senso che l’hanno pure gli atei. Sarà, quella degli atei, una fede antireligiosa, controreligiosa o areligiosa, ma de facto risponde allo stesso bisogno della religione: offre una visione del mondo integrale e totalizzante.

La critica alla Barrett religiosa, e cattolica, è allora sì una critica che punta il dito contro la fede, ma contro la fede che si vede, si sente e si comunica, una fede che riverbera, che incide, che determina, che sceglie, che discrimina, insomma una fede che si fa vissuto e cultura. Non verrebbe cioè criticata una Barrett religiosa e cattolica la cui religiosità e il cui cattolicesimo facessero l’effetto dell’acqua fresca: come il cattolicesimo di Joe Biden e di Nancy Pelosi, cattolici che non hanno alcun problema a calpestare ogni e qualunque principio non negoziabile difeso (anche) dalla dottrina cattolica, in primis il diritto alla vita. Un cattolicesimo cioè che non sapesse di cattolicesimo andrebbe benissimo per una Barrett per tutte le stagioni. Ma la Barrett non è così: lo sa lei, lo sa Trump che l’ha nominata, lo sa il Senato federale degli Stati Unti che dovrà votare la ratifica della sua nomina, lo sa il mondo intero. Per questo il mondo intero si permette di dire che l’unica fede che tollererebbe è una fede farlocca, una fede che non sa di nulla.

Contro i nuovi catari

Secondo padre Reese temere che l’operato professionale della Barrett possa essere inficiato dalla sua fede religiosa è assurdo, giacché «sostenere che il credo religioso di una persona non sia o non debba influenzare il modo in cui detta persona si relaziona alle questioni giuridiche mostra ignoranza sia della storia sia della politica». Per politica, infatti, s’intende «[…] il modo in cui si prendono decisioni determinanti per i membri della nostra comunità politica. Perno di tutto è la domanda “Che cosa si deve fare?”, domanda essenzialmente di natura morale. Qualunque frase contenga il verbo “dovere” è un’affermazione di natura morale, dal momento che giudica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato». Questo perché «non tutte le questioni morali sono questioni politiche, ma tutte le questioni politiche sono questioni morali», laddove bisogna distinguere «[…] tra morale personale e morale sociale». I gesuiti sono fantastici quando spaccano il capello in quattro, sbaragliando il massimalismo talebano dei nuovi catari con qualche frase ben cesellata: «La morale personale riguarda soltanto l’individuo (e magari un altro adulto consenziente); la morale sociale copre tutte le azioni che impattano sugli altri. La morale sociale è dominio della politica e la politica è il modo in cui vengono imposte norme sociali alla comunità».

Mentre probabilmente l’universo del politicamente corretto vorrebbe lapidarlo solo per quest’ultima affermazione, che spiega perché è lecito, legittimo, giusto, doveroso e fondamentale che un cattolico, un evangelicale, un ebreo o un musulmano osservanti votino il Trump antiabortista lasciando il Trump sciupafemmine al suo confessore (e a sua moglie) – «Con chi vado a letto può essere una questione morale», spiega rotondamente padre Reese, «ma non è una questione politica. Chi giustiziamo come società è una questione sia morale sia politica» –, padre Reese fa un passo oltre.

Per gran parte «[…] della storia occidentale la gente ha ricevuto le nozioni di giusto e di sbagliato dal cristianesimo grazie alla mediazione dei genitori e della cultura. Per i cattolici più sofisticati ha svolto un ruolo anche la filosofia greca, grazie a teologi quali san Tommaso d’Aquino, per i quali fede e ragione non sono conflittuali». Questa la premessa, a cui segue una massima grandiosa: «Al meglio di sé, il cattolicesimo ha promosso la cultura dell’amore per il prossimo; al peggio di sé, ha soggiogato i laici ai capricci del clero».

Ciò detto, «la sintesi cattolica tra fede e ragione è stata spezzata dalla Riforma, che ha reso preminenti le Scritture, e dall’Illuminismo, che ha rigettato l’apporto della religione». Ebbene, senza essere liberal si può convenire tranquillamente con padre Reese sul fatto che «[…] entrambi abbiano fatto molto per liberare l’uomo» dal clericalismo (più adeguato dell’espressione «autorità clericale» usata da Reese) – angelo tentatore e stortura della Chiesa gerarchica e dell’attenzione della Chiesa anche per gli aspetti spirituali delle cose del mondo, non certo né regola né ideale –, ma è altrettanto vero che «[…] il protestantismo ha sviluppato una propria versione di clericalismo» e che «[…] i tentativi di dare vita a una morale senza la religione hanno prodotto il totalitarismo […] del Novecento europeo» (l’omissis salta le parole «sia di destra sia di sinistra» perché spiegare qui che il socialcomunismo e il nazionalsocialismo sono varianti di un unico pensiero di “sinistra” non è fisicamente possibile).

Libertà religiosa politica

Ora, in tutti i momenti politici forti i credenti sono stati presenti e si sono coinvolti, conclude padre Reese. Ometto il suo elenco di momenti politici forti della storia degli Stati Uniti perché questo è vero ovunque e perché il “caso Barrett” non è affatto solo una questione americana. A maggior ragione è vero per gli Stati Uniti, che non sono un Paese laicista, e nemmeno liberal, bensì un Paese fondato sulla morale che viene dalla tradizione cristiana. Perché la Costituzione federale degli Stati Uniti non contiene alcun muro di separazione fra Chiese e Stato.

Quella espressione famosa, abusata e artatamente equivocata è contenuta solo in una lettera inviata il 1° gennaio 1806 dal presidente Thomas Jefferson (1743-1826) ai battisti di Dunbury, nel Connecticut, e ha il significato opposto a quello che si vorrebbe insinuare. I battisti di Dunbury, preoccupati della possibile ingerenza del governo federale nelle questioni religiose (tant’è che esistevano “Chiese di Stato” in alcuni singoli Stati dell’Unione nordamericana), scrissero al presidente “padre della patria” che li rassicurò dicendo che un muro avrebbe impedito al governo di intromettersi nelle Chiese libere di agire, esattamente come sta scritto nel Primo emendamento alla Costituzione federale che erige la libertà religiosa a primo diritto anche politico dei cittadini statunitensi.

Ebbene, dire che la libertà religiosa è anche un diritto politico significa dire che vige la libertà di vivere in pubblico, in tutte le sue conseguenze, la fede religiosa, quale che essa sia, in primis quella cristiana che è parte integrante della fondazione degli Stati Uniti. Ed è qui che il caso Barrett c’entra.

Nel segno di Scalia

Al giudice Barrett spetta il diritto di vivere pubblicamente la propria fede religiosa perché a ogni cittadino degli Stati Uniti spetta quel diritto. Se arriverà alla Corte Suprema federale, compito unico del giudice Barrett sarà vegliare sulla lettera di quella Costituzione federale che stabilisce essere la libertà religiosa il primo diritto politico dei cittadini statunitensi. E nella Costituzione degli Stati Uniti – Costituzione che ogni giudice statunitense, non solo la Barrett, è tenuto a osservare alla lettera e Stati Uniti cristiani senza una Chiesa di Stato federale – non sta scritto che a tutti sia garantito quel diritto sorgivo tranne che ai cattolici.

Se per lungo tempo gli Stati Uniti hanno abusato di se stessi ritenendo che quel diritto spettasse sì a tutti fuorché ai cattolici, perennemente sospettati di non essere patriottici a sufficienza poiché “servi” di una potenza straniera, il Vaticano, a essi ha risposto magnificamente un uomo come il giudice Antonin G. Scalia (193-2016), capace di essere campione di fede cattolica non annacquata e interprete tra i più rigorosi della Costituzione, quindi patriota superlativo. Il 26 settembre il giudice Barrett ha voluto dire proprio questo quando, accettando la nomina presidenziale nel Rose Garden della Casa Bianca, ha citato Scalia affermando di riconoscersi pienamente in lui: e ha detto che, come Scalia, sarà il suo essere cattolica integrale (non alla Biden o alla Pelosi) a dimostrare il suo essere patriota autentica. Basterà infatti la Costituzione degli Stati Uniti: perché il vero traditore è chi aggiunge ubbie proprie a quel testo.

«È per questo che la fede della Barrett è importante, ma ininfluente», spiega padre Reese. «La sua fede religiosa può pure influenzare il suo modo di intendere il diritto, ma questo è vero per quasi tutti i membri della corte». Di più: è vero sempre per chiunque. Cosa importa allora davvero? «Quel che importa sono le sue decisioni, quali che siano le sue motivazioni». Qui il Manuale Cencelli lascia il posto al Manuale Trump: quel che importa sono le sue decisioni, quali che siano le sue motivazioni. Il Senato federale degli Stati Uniti deve ora scegliere un nuovo giudice per la Corte Suprema federale: un giudice che rispetti la legge fondamentale del Paese senza inventarsi che fra le righe contenga assurdità inesistenti come il diritto all’aborto, la separazione fra sesso e gender, la libertà di religione solo per chi la religione la svuota e vilipende, e così via. Oppure può preferivi chi tradisce la Costituzione. È qui che una cattolica integrale come la Barrett dimostrerebbe di essere maestra di laicità autentica. E al sottoscritto, italiano, additare questo esempio statunitense basterebbe per fare, da cattolico, un periodico laico come “iFamNews”.

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