La blasfemia come diritto: il caso «Femen» e oltre

La Corte europea dei diritti dell'uomo dice che i musulmani non possono essere offesi. Bene. Per i cristiani però questo non vale

meraviglia

Last updated on Ottobre 31st, 2022 at 10:53 am

Di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha accolto la denuncia di Éloïse Bouton, del movimento «Femen», riconoscendo alla donna un risarcimento di 9800 euro, di cui 2mila per danni e 7800 per le spese legali. Nelle motivazioni della sentenza la Corte ha sottolineato che i tribunali francesi non hanno tenuto sufficientemente conto del fatto che il comportamento indecente della ricorrente «[…] era in realtà volto a trasmettere, in un luogo simbolico di culto, un messaggio sul ruolo svolto dalla Chiesa Cattolica in una questione delicata e controversa qual è il diritto delle donne di decidere del proprio corpo, ivi compreso il diritto all’aborto». La Corte ha infatti sottolineato di sentirsi «toccata dalla severità della punizione» inflitta alla donna.

Questa altro non è che l’ennesima sentenza con cui il Tribunale di Strasburgo abbassa quello che dovrebbe essere lo standard di protezione dei diritti dei cristiani, in teoria garantiti dall’articolo 9 della Convenzione, contro attacchi verbali rozzi e volgari. In passato, e per diversi decenni, la Corte ha più volte ribadito che il principio della libertà di espressione non comprende affatto il diritto di pronunciare affermazioni inutilmente offensive, le quali non contribuiscono in alcun modo alla discussione, ma che servono piuttosto soltanto a umiliare i credenti. Eppure, davanti alle denunce sporte da persone famore e da attivisti di vario tipo a fronte di sanzioni simboliche inflitte loro dai tribunali di diversi Stati come conseguenza degli insulti da loro indirizzati alla religione cristiana, la Corte ha iniziato gradualmente a prendere le distanze da quella posizione.

Alla luce di sentenze recenti della CEDU, quindi, pare proprio che l’insulto ai cristiani venga oramai considerato un fatto accettabile, e questo non solo sui media, ma pure nei loro luoghi di culto. Non resta quindi che spersre che, a fronte della sentenza più recente emessa dalla Corte, il governo francese eserciti il proprio diritto di appello.

Quella sentenza è del resto simile a un’altra che la Corte ha pubblicato qualche settimana fa in merito al caso Rabczewska vs. Polonia. In un’intervista alla stampa del 2009 la cantante Dorota «Doda» Rabczewska ha dichiarato di «credere più ai dinosauri che alla Bibbia», poichè «è difficile credere in quel che scrive chi beve vino e fuma erba». Nel 2010, dopo la denuncia sporta da due cristiani offesi da qualle sue parole, la procura ha accusato la Rabczewska per offesa al sentimento religioso in base all’articolo 196 del Codice penale. Nel 2012, qunado il tribunale distrettuale ha condannato la cantante a una multa di 5mila zloty e dopo che il tribunale regionale ha confermato la sentenza, la cantante ha fatto ricorso davanti alla Corte costituzionale impugnando quell’articolo 196 del “Codice” che sta alla base della sua condanna, ma da quella Corte ha solo ottenuto, nel 2015, la confermato del giudizio.

Nel 2013 l’avvocato della Rabczewska ha quindi sporto denuncia alla CEDU, dichiarando che la sanzione inflitta alla sua cliente violava il diritto alla libertà di espressione dancito dall’articolo 10 della Convenzione. Nel 2017 l’Istituto Ordo Iuris, con il consenso del presidente della Prima Sezione della Corte, ha aderito al procedimento in corso davanti alla CEDU, presentando una memoria amicus curiae. L’Istituto ricordava infatti che, secondo la giurisprudenza già applicata in precedenza dalla Corte, lo Stato ha il diritto di punire le espressioni «inutilmente offensive» contro quanto attiene al culto religioso.

Ora, con una maggioranza di 6 a 1, la CEDU ha stabilito che in quel caso la Polonia violava il diritto alla libertà di espressione della Rabczewska, riconoscendole pertanto il diritto a un risarcimento per danni pari a 10mila euro. Perltro, nel corso del dibattimento, la Corte ha accusato i tribunali polacchi di avere ignorato il contesto in cui la dichiarazione della ricorrente aveva avuto luogo, cosa che dimostrava come la cantante si fosse «rivolta ai propri fan», come «ella non si fondasse su fonti serie» e come ella avesse voluto essere «deliberatamente frivola e colorita, nel desiderio di suscitare interesse».

Di conseguenza la CEDU ha ritenuto che le parole della cantante «non costituissero un attacco inappropriato od offensivo a un culto religioso, incitando all’intolleranza o violando il principio di tolleranza, che è uno dei fondamenti della società democratica». E secondo la Corte le dichiarazioni della Rabczewska non hanno nemmeno suscitato scandalo nell’opinione pubblica, come si evincerebbe dal fatto che solo due persone, cristiane, l’hanno denunciata alla procura. Per la CEDU, poi, l’ammenda di 5mila zloty inflitta alla ricorrente corrisponde a 50 volte la cifra minima comminata abitualmente e non può dunque «essere considerata insignificante».

Un’opinione in netto dissenso è stata allora presentata da un giudice polaccoKrzysztof Wojtyczek, che ha sottolineato la natura sprezzante delle dichiarazioni della ricorrente, le quali, nel contesto degli attacchi verbali e fisici in continuo aumento contro i cristiani in Europa, giustificava la sanzione comminatale.

Ebbene, il verdetto della Corte contraddice la linea giurisprudenziale finora seguita, secondo la quale la libertà di espressione non include il diritto a dichiarazioni gratuitamente offensive nei confronti della religione. E infatti, nel 2019, seguendo questa linea la Corte ha respinto il ricorso nel caso E.S. vs. Austria, allorché un’attivista di destra fu sanzionata con un’ammenda pari a 480 euro per avere accusatio, durante un seminario a porte chiuse sull’islam, Maometto di tendenze pedofile a cuasa del matrimonio contratto con una bambina di sei anni. In quel caso la CEDU ha ritenuto che la dichiarazione costituisse «violazione spregevole dello spirito di tolleranza».

È opportuno, però, sottolineare tre punti. In primo luogo, a difesa della Rabczewska, la Corte sostiene che «le sue parole nonsi basavano su fonti serie e sono state deliberatamente frivole». Tale circostanza rappresenta infatti un’aggravante, a dimostrazione della natura gratuitamente offensiva dell’intento della cantante.

In secondo luogo la Corte considera dannoso citare un fatto storico ben noto sui rapporti intimi intercorsi fra Maometto e una minorenne, basate esplicitamente su finti storiche (Ṣaḥīḥ al-Bukhārī), mentre allo stesso tempo considera innocua l’affermazione che definisce la Bibbia, libro sacro per cristiani ed ebrei, come un’opera scritta sotto l’effetto di stupefacenti. Le affermazioni fattuali supportate dalle fonti vengono cioè puniti, mentre quelli frivoli e privi di fonti vengono protetti.

In terzo luogo la Corte sottolinea che “solo” due credenti cristiani si sono sentiti stati offesi, dimenticando però che, nel caso E.S. vs. Austria, non è stata offesa alcuna persona di religione musulmana, poiché la denuncia alla Procura è stata fatta dal superiore del giornalista in questione, che non era musulmano, ma che pure aveva preso parte al seminario.

In sostanza, dunque, la Corte riconosce che i musulmani non possono venire offesi, nonostante la base storica di certe affermazioni, laddiove invece i cristiani sì, benché le aprole pronunicate contro di loro sono prive di qualsiasi fondamento.

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