La bellezza delle vite fragili

Luca Russo racconta Agnese e gli altri. “Vite non degne di essere vissute” accolte e salvate

Last updated on aprile 21st, 2021 at 06:20 am

La piccola Agnese, sette anni e mezzo, è affetta da microcefalia congenita. Soffre anche di epilessia farmaco-resistente, non vede, non parla, si può alimentare soltanto attraverso tubicini collegati direttamente allo stomaco e all’intestino. La sua è una di quelle vite che, secondo taluni, sarebbero da sopprimere, in base al principio orwelliano del “miglior interesse”: insomma, una vita non degna di essere vissuta.

Eppure, nella sua disgrazia, Agnese è una bambina fortunatissima. Non solo perché sta vivendo molto più del tempo che i suoi pediatri avevano previsto, ma, soprattutto, perché ha trovato una famiglia adottiva straordinaria. «Questa bambina è nata “con il timer”», racconta il papà, Luca Russo, ad “iFamNews. «Quando ce la consegnarono, ci dissero di prepararci, perché, avendo avuto dei fratellini affetti dalla stessa patologia, non sarebbe vissuta più di due anni e mezzo, massimo tre. Noi la amiamo con tutto il cuore e Agnese, pur nel suo silenzio, ci restituisce una bellezza della vita, che solo vivendo al suo fianco si può cogliere».

Agnese non è l’unico bambino “fragile” adottato da Luca e Laura Russo. I due coniugi, sposati dal 1998, si sono conosciuti nel contesto della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata dal Servo di Dio don Oreste Benzi (1925-2007). Vivono ad Assisi, in una casa-famiglia che, in 23 anni, per tempi più o meno lunghi, ha accolto qualche decina di persone, tra adulti e bambini, tutti accomunati da una caratteristica: essere delle “vite scartate”. «Alcuni di questi bimbi, adesso, sono in Cielo», prosegue il signor Russo. «Ci hanno onorato della loro presenza, permettendoci di guardare con occhio diverso gli orizzonti della vita, di dare uno spessore diverso al senso e alla dignità delle cose che contano veramente nella vita». Attualmente la famiglia Russo si compone di una quindicina di persone, compresi i genitori ottantenni di Luca, le due figlie naturali di 20 e 19 anni, i numerosi figli adottivi o affidatari e un adulto, ex detenuto, diventato volontario nella casa-famiglia.

A tutti i bambini e ragazzi transitati più o meno temporaneamente presso la sua casa-famiglia, Luca ha dedicato il libro Quanta bellezza. Elogio dei corpi fragili e cultura della cura, un saggio che, accanto all’esperienza concreta di ogni giorno, propone una filosofia di vita, fondata integralmente sulla cultura del dono. Una cultura, questa, che non si regge certo sulle belle parole, bensì sul sacrificio di sé e su scelte radicali, che scuotono e colpiscono il cuore.

«Agnese ci dà la grazia di spendere notti in bianco per lei», dice suo papà con un pizzico di sano orgoglio, «di farci tremare gambe e polsi nei momenti in cui è in preda a crisi febbrili improvvise o ad attacchi epilettici. Ci permette, però, di cogliere quelle piccolissime cose della vita che fanno la differenza nella bellezza. Da qui il titolo del libro: abbiamo riconosciuto che tanta bellezza ci è passata tra le braccia e ancora la riempie. Chi lo legge, credo possa riscoprire una propria bellezza, anche nella fragilità della propria vita, quindi, proprio per questo, sentirsi consolato».

Coincidenza provvidenziale: il libro Quanta bellezza è uscito il 9 febbraio, Giornata nazionale degli stati vegetativi. Questa data non era affatto programmata, ma, effettivamente, la piccola Agnese versa in uno stato di “coscienza minima”. «Non ha consapevolezza di sé», spiega il padre adottivo, «quindi è anche difficile proporle stimoli educativi. Le facciamo fare una ginnastica posturale e una fisioterapia respiratoria, con l’allungamento dei tendini: si lascia manipolare, vive questa esperienza passivamente. Il suo è uno di quei corpi senza “forza di gravità”, né “peso specifico”, che attendono solo di essere ancorati a terra, per sentire che siamo al loro fianco. Il modo per restituire la dignità a queste creature è la nostra presenza, il nostro sacrificio, la relazione che creiamo con loro e che testimonia a chiunque altro che lì c’è una persona».

Oltre ad Agnese, Luca e Laura Russo hanno adottato un altro bambino affetto da una sindrome gravissima. «È arrivato da noi in condizioni davvero molto critiche e adesso sta mostrando grandi chance di recupero, nonostante una malattia che si porterà dietro per tutta la vita», racconta Russo. «Nella casa-famiglia ospitiamo da 22 anni anche un ragazzo rimasto in carrozzella a seguito di un incidente stradale, e un ragazzo non vedente: anche lui sta con noi da 22 anni, cioè dalla nascita. Da 12 anni, poi, ospitiamo un ex detenuto, venuto da noi per la prima volta già durante la semilibertà: in seguito ha scelto di rimanere in casa-famiglia come volontario. Poi ci sono due gemelli ventenni originari della Tanzania, giunti da noi quando avevano 4 anni, e due sorelle ormai adulte, che abbiamo accolto nel 1998. Due dei nostri bambini adottivi oggi sono in Cielo. Uno di loro (a cui nel libro ho dato il nome di fantasia di Alfredo), viveva tracheotomizzato e attaccato alle macchine: ci ha lasciato nel 2015, a seguito della degenerazione della sua malattia».

Le due figlie naturali di Luca e Laura sono nate quando i genitori già accoglievano in casa altri bambini. Hanno quindi respirato da subito l’atmosfera atipica di una famiglia numerosa e “particolare”. «Per loro la nostra è una famiglia normale», confida il padre. «Soltanto alle elementari, quando hanno iniziato ad andare in casa delle compagne di classe, si sono accorte che esistevano famiglie di sole tre persone che cenavano con la tv accesa. Poi tornavano e mi dicevano: “mamma mia, papà, che tristezza e che silenzio!”. Per loro l’ordinarietà della vita è sempre stata l’aria di confusione/festa di una casa dove si cena con almeno 15-16 persone…».

Nel libro, Luca Russo scrive: «L’eutanasia viene invocata da chi ha perso la chiave di accesso alla felicità. Ed è pur vero che la chiave che apre le porte della vita felice la possiede anche chi vive un’intera esistenza alle dipendenze della vita di un altro». La sua opposizione alla cultura dello scarto, la spiega così: «Posso essere dipendente dagli altri, perché non ho gli occhi per vedere, perché sono tracheotomizzato o mi nutro con la PEG. La dipendenza dall’altro è una vera bestemmia agli occhi di chi sostiene l’autodeterminazione a tutti i costi, estremizzando questo principio. Così facendo, disconoscono la dignità delle vite totalmente dipendenti dagli altri, legittimandone la soppressione. Invece, anche una vita “dipendente” può diventare una vita bellissima. Se solo fossimo capaci di costruire una società non più egoistica ed egocentrica ma solidale, dove il forte si confonde col debole e se ne prende cura, avremmo trovato le chiavi di accesso alla felicità per tutti».

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