L’«utero in affitto» di Terni

La «maternità surrogata» come marxismo realizzato

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Last updated on Gennaio 28th, 2021 at 01:06 pm

Maria Sole e Sergio sono una coppia di sposi ternani. Vorrebbero tanto avere un bambino, ma, per via di una malattia rara, la sindrome di Rokitansky, che ha colpito lei privandola dell’utero, non riescono a concepire. Pur di avere un bambino sono pronti a ricorrere alla «maternità surrogata», ovvero l’«utero in affitto».

Così nella vita di Maria Sole e di Sergio approda l’associazione Luca Coscioni, la quale, approfittando dell’appello lanciato dalla coppia per trovare una «madre surrogata», poi accolto da Sara, disposta a fare da gestante per loro, strumentalizza il caso e ne fa una battaglia politica e ideologica.

Nell’attesa che il Tribunale di Roma si esprima, i Radicali hanno infatti preparato una proposta di legge per far sì che, nel caso venga accolta, la richiesta della coppia possa diventare un modello da seguire.

L’augurio è che il Tribunale romano sia ligio a quanto il legislatore ha stabilito nel 2004 con la Legge 40, la quale, all’art. 12, comma 1 e 2, vieta espressamente la realizzazione, l’organizzazione e la pubblicizzazione dell’«utero in affitto» in Italia e, come nel comma 6, punisce i trasgressori con una pena dai tre mesi ai due anni di reclusione e una multa da 600 mila a un milione di euro.

Tutto è merce

Ora, il meccanismo utilizzato dai Radicali è quello classico con cui, in Italia e all’estero, si sdoganano nell’opinione pubblica l’aborto o l’eutanasia, l’ideologia gender e la ricerca medica che pretende di barattare la cura di una malattia con la soppressione di esseri umani “coltivati” in laboratorio: la strumentalizzazione del caso singolo e pietoso, proposto all’opinione pubblica come intervento di carità.

Ma nell’«utero in affitto» c’è ben poco di caritatevole. E così, invece di proporre miglioramenti a soluzioni che già esistono per casi come quello di Maria Sole e Sergio, per esempio le adozioni, la Luca Coscioni cerca la strada per rendere sempre più concrete e legali le affermazioni di Karl Marx (1818-1883) secondo cui tutto è merce.

Ma c’è anche chi è pronto a dar battaglia, come la parlamentare europea Simona Baldassarre, che, condannando la «maternità surrogata», ribadisce l’esistenza di un’alternativa: «semplificare le adozioni nazionali e internazionali, per aiutare tutte quelle coppie con difficoltà che vogliono accogliere un figlio nella propria famiglia».

Multinazionali della riproduzione

Il riferimento a Marx non è casuale. Viviamo sì, infatti, nell’era della bio-economia, che sembra realizzare la completa riduzione della vita a merce preconizzata dal padre del comunismo, in cui quello che avrebbe dovuto essere uno scenario dell’evoluzione della libertà femminile, cioè il controllo della maternità, diventa il meccanismo propulsore per l’incremento dello sfruttamento economico del corpo delle donne, creando un vero e proprio mercimonio della vita.

Abbattuto ogni limite etico, morale e religioso, l’economia si appropria così della vita oltrepassando il concetto di ciò che è merce e di ciò che non lo è, assegnando a tutto un semplice valore di scambio. Di tutti gli attori coinvolti nell’aberrazione dell’«utero in affitto» gli unici vincitori risultano poi le multinazionali della riproduzione, che ne traggono profitti ingenti.

La donna resta invece soggetto completamente sfruttato, assumendo la seconda natura di «surrogata»: ovvero un prodotto in mani terze, che gestiscono il processo di manipolazione della vita.

La mercificazione colpisce infatti non solo la «madre surrogata», ma, in forma ancora più grave, il figlio destinato a nascere da tale pratica.

La propaganda sentimentalistica

Perché il nascituro viene trattato come mero oggetto di compravendita, per il quale sono stabiliti prezzi, modalità di fornitura, stoccaggio e garanzie di qualità. Nel caso non venga realizzato rispettando la lettera del contratto, il prodotto viene pertanto eliminato e rifatto come da accordi.

Quello del bio-market è infatti un business da capogiro, che ha proprio nell’«utero in affitto» il prodotto di punta e l’obiettivo. Non semplicemente uno strumento, dunque, o un by-product, bensì l’essenza e la ragione di un’azione intenzionale: la «maternità surrogata» fine a se stessa, come ideale.

Ovviamente va sempre di pari passo a un grande lavoro sul piano comunicativo, area fondamentale per la realizzazione di ogni operazione commerciale, in specie questa che agisce costruendo un messaggio “umanitario” ad hoc per accattivarsi la clientela e addomesticare l’opinione pubblica.

Le parole chiave sono «amore» e «altruismo», slogan che, con la tecnica delle piccole gocce, non mirano solo a trasformare in gesto amorevole quello che per il sentire comune resta ancora un abominio, ma che ha soprattutto il compito di attirare la “materia prima” su cui fa poi leva tutta l’architettura di questo business. Le madri, indirizzate alla surrogazione.

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