L’ora X di Amy Coney Barrett

I suoi avversari scendono in piazza alla black bloc e promettono la rivoluzione. E continuano a chiamarsi Democratici

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Oggi (ora della Costa orientale) il Senato federale degli Stati Uniti d’America vota per decidere se il giudice Amy Coney Barrett sarà il prossimo componente della Corte Suprema di Washington, in sostituzione della defunta Ruth Bader Ginsburg (1933-2020), e con tutta probabilità sarà l’ultimo atto del Senato prima delle elezioni del 3 novembre, quando, oltre a presidente e vicepresidente federali, verrà eletto il 117° Congresso (tutta la Camera dei deputati e un terzo dei senatori), che entrerà in carica il 3 gennaio.

Sarei tentato di scrivere che certamente sarà il nono giudice del tribunale supremo del Paese, ma la scaramanzia non è mai troppa. In questo caso la scaramanzia è peraltro più che appropriata, vista la posta in gioco e date le qualità umane e professionali della Barrett, laddove invece la certezza di cui meno vanto si fonda su fatti oggettivi.

Per prassi ormai consolidata (pena il possibile, e probabile, blocco di tutte le conferme di nomine di caratura federale che sono competenza del Senato per effetto delle differenze cronicamente esigue fra maggioranza e opposizione dentro la “Camera alta”, e dell’efficacia speciale, in questo caso, della tecnica dell’ostruzionismo parlamentare) oggi in Campidoglio sarà un voto di maggioranza semplice a promuovere o a bocciare la Barrett. Ora, nel Senato federale, il 116°, i Repubblicani vantano 53 seggi su 100, l’opposizione 47: 45 Democratici e due “indipendenti” sempre allineati con loro. Non vi è ovviamente alcun obbligo scritto, ma è evidentissimo che il voto si svolgerà lungo linee di partito: i Repubblicani voteranno a favore e i Democratici contro. Così, la Barrett sarà quindi confermata.

Purtroppo è assai improbabile che qualche Democratico rompa le righe e, come accaduto nel 2017 per il giudice Neil M. Gorsuch e nel 2018 per il giudice Brett M. Kavanaugh, voti a favore del giudice Barrett ascoltando la propria coscienza e onorando la propria professionalità. La polarizzazione, infatti, soprattutto per l’imminenza delle elezioni per la Casa Bianca del 3 novembre, è oggi più forte che mai. In più la Sinistra grida allo scandalo proprio perché la “pratica Barrett” sarebbe stata avviata e risolta con celerità colpevole prima delle suddette elezioni. Ebbene, tutto questo rende altamente improbabile che qualche Democratico si schieri con i Repubblicani. E sarà un gran peccato, perché anzitutto e soprattutto la Barrett offre garanzie enormi di trasparenza e di professionalità, onorando al meglio il ruolo che sarebbe chiamata a svolgere: custodire la Costituzione federale, vegliare sulla costituzionalità delle leggi varate dal Congresso federale e impedire ogni indebita attività politica della Corte Suprema. E questo non è né di destra né di sinistra: è onesto, è coerente, è americano, non è solo americano. Fu proprio ravvisando in Gorsuch e in Kavanaugh figure che nella Corte Suprema avrebbero agito come garantisce oggi di agire la Barrett se confermata che alcuni Democratici diedero il proprio plauso nel 2017 e nel 2018 a quei due candidati scelti dal presidente Donald J. Trump, non certo perché i Repubblicani se li fossero comperati o perché quei Democratici fossero meno Democratici.

Gli “ultimi giapponesi” Repubblicani

Dunque la maggioranza Repubblicana nel Senato è sufficiente a garantire la conferma della Barrett. Le sorprese, su questo piano, sono infatti già tutte annunciate, e quindi non più sorprese.

Susan Collins, una delle due mele marce del cesto Repubblicano nel Senato, nota per l’impegno di diverse politiche progressiste (fra cui l’aborto), ha già annunciato che voterà contro la conferma della Barrett. La Collins è “l’ultimo giapponese” che ancora combatte sull’isola sperduta una battaglia persa in partenza, non essendosi accorta che, da decenni, il Partito Repubblicano è cambiato, diventando graniticamente conservatore. O forse sì, visto che a suo tempo finì poi per votare a favore sia di Gorsuch sia di Kavanaugh come non “avrebbe dovuto”. Comunque sia, il suo voto contrario porterà l’equilibrio a 52 a 48, ovvero non strapperà la vittoria al fronte conservatore. Del resto, nel Maine, la Collins è uno di quei senatori che, il 3 novembre, si gioca la rielezione.

C’è però anche un “penultimo giapponese” irredento. È l’altra (e ultima) mela marcia Repubblicana nel Senato, Lisa Murkovski. Pure lei su posizioni spesso liberal (su aborto e altro), anche lei fini per votare per Gorsuch e, nel caso di Kavanaugh, si espresse negativamente, ma, in aula, pur facendosi contare presente, non comparve. Venne così azzerato sia il suo voto contrario sia quello favorevole a cui era intenzionato il collega di partito, Steve Daines, assente però giustificato. I voti dei due assenti non furono quindi conteggiati e l’equilibrio che confermò Kavanaugh venne rispettato.

Questa volta la Murkovski, data per pencolante per qualche giorno, ha invece sciolto il riserbo sabato 24, annunciando che oggi non seguirà la sodale Collins e dunque voterà «sì» alla Barrett assieme ai propri colleghi Repubblicani. La ratio del voto resterà 52 a 48 e la vittoria sorriderà ancora al fronte conservatore.

Per ipotesi fantascientifica il fronte del consenso potrebbe insomma perdere addirittura fino a due voti ulteriori. Ma, visti i margini stretti fra maggioranza e minoranza in pendenza di schieramenti tanto tetragoni, è davvero una ipotesi fantascientifica. A meno di fortunali, per i quali valgono rogazioni. Nel caso ai Repubblicani dovessero venire a mancare altri due voti oltre all’assenza annunciata di quello della Collins (cioè in totale tre), sarebbe pareggio, 50 a 50. Qui diverrebbe allora decisivo il voto del presidente del Senato, che, da Costituzione, è il vicepresidente federale, ovvero Mike Pence. Risultato, sempre vittoria per la Barrett.

La pagliacciata Democratica

Tutto è stato deciso giovedì 22 dal leader della maggioranza Repubblicana in Senato, Mitch McConnell, allorché il Senate Committee on the Judiciary, detto comunemente «Senate Judiciary Committee», a conclusione delle udienze di valutazione svoltesi dal 12 ottobre al 15, ha votato per rimettere la questione al voto dell’intero Senato in data lunedì 26, appunto oggi. Per rendere possibile il voto di oggi, il Senato non ha quindi (raramente accade) sospeso i lavori per il week-end (è stato deciso con un voto espresso dal Senato venerdì 23) e proceduto, domenica, al voto che mette fine al dibattito, e all’ostruzionismo, la cosiddetta «ghigliottina», consentendo solo ulteriori 30 ore di discussione. Per tutta la notte scorsa, dunque, i Democratici si sono avvicendati al microfono (le regole consentono non più di un’ora ciascuno) e la maratona sta proseguendo ancora adesso. Al voto di ieri la Collins e la Murkovski si sono espresse contro la limitazione del dibattito (la Murkovski nutre dubbi sulla procedura d’urgenza del “caso Barrett”, ma appunto oggi la voterà), ma con 51 voti contro 49 la mozione è passata ugualmente.

E giovedì 22 è però andata in scena la pagliacciata. I 10 membri Democratici dei 22 totali del Senate Judiciary Committee (la cui composizione rispecchia quella dell’intero Senato, consentendo spazi di manovra oggettivamente ampi anche all’opposizione) hanno infatti disertato aula e voto, facendo sì che la Barrett arrivasse al voto finale con il voto unanime dei presenti, 12 a 0.

L’altra settimana i Democratici hanno grigliato la Barrett a fuoco lento, e intervallato fiammate vive, per quattro interminabili giorni durante i quali hanno cercato di costringerla a tradire il compito che il giudice sarà chiamata a svolgere dentro la Corte Suprema. Hanno cercato di trascinarla nello scontro ideologico partigiano, di farle esprimere pareri personali su questo e su quello oltre a giudizi in quella sede inopportuni su quanto già passato in giudicato, di farle emettere sentenze teoriche “di prova” su ipotetici casi futuri, di farle ammettere di nascondere nella tasca del tailleur una sorta di mandato occulto di killeraggio ordinato da Trump e dal Partito Repubblicano, e infine di chiuderla nell’ombra di un danaroso complotto di destra (di cui farebbe parte pure la National Organization for Marriage, presieduta da Brian Brown, che presiede anche l’International Organization for the Family, editore di “iFam News” in diverse lingue). Hanno insomma cercato di far fare figura pessima a chi si candida invece ad applicare la legge con integrità oltre i propri desideri, le proprie idee e le proprie ubbie come essi invece vorrebbero.

La Barrett ha però resistito a ogni tentazione con dolcezza e risposto colpo su colpo, affermando che giudicherà sempre ogni caso per il caso che sarà, senza pregiudizi, mettendosi persino un poco dalla parte “del torto” (ovvero dalla parte contraria a quella del proprio orientamento) onde valutare con ponderatezza maggiore in ogni circostanza, rispettando il diritto, non ipotizzando illuministicamente cosa potrebbe accadere domani ma lavorando sempre realisticamente su quanto avrà davanti a sé oggi, e giudicando in base a quanto la legge fondamentale del Paese e i precedenti in linea con essa stabiliscono. E questo, a chiunque abbia a cuore i princìpi non negoziabili, è più che sufficiente, visto che la violazione dei princìpi non negoziabili non è presente nella Costituzione federale degli Stati Uniti e che le leggi che invece consentono tali violazioni, per ciò stesso e in tutta evidenza, sono incostituzionali. E per modificare la Costituzione (come ha pure brillantemente più volte ricordato la Barrett durante le audizioni) serve la politica, non la magistratura.

Urla e pugni chiusi

Dopo questa raffica, dunque, giovedì i Democratici hanno installato sui propri seggi senatoriali gigantografie di persone che, secondo il loro giudizio ideologico, verrebbero minacciate nella propria salute qualora la Barrett venisse confermata, giacché, dicono ideologicamente, la Barrett è contro la riforma sanitaria voluta dal presidente Barack Obama, nota come «Obamacare». Nel loro linguaggio, ciò significa che, se confermata, la Barrett negherebbe loro cure sanitarie di cui assolutamente necessitano. Più o meno un’assassina, insomma, o giù di lì. Ma tutti sanno che non è vero. La Barrett lavorerà osservando la legge secondo giustizia e, in piena coscienza, difendendo la vita umana. Semmai è il fronte progressista quello che da decenni minaccia la vita umana. E l’«Obamacare» non è affatto la soluzione dei mali delle Sanità statunitense, poiché provoca danni gravi e talora cagiona veri delitti, come quando prescrive contraccezione, aborto e sterilizzazione. Inoltre, per garantire davvero la salute degli americani, ci sono alternative all’«Obamacare».

Ebbene, sedute quelle fotografie strumentalizzate in Senato, i Democratici hanno tenuto una conferenza stampa all’esterno che ha dell’incredibile. Il leader della minoranza Democratica in Senato, Chuck Schumer, si è improvvisato black bloc da strada e, agitando minacciosamente e marxisticamente il pugno chiuso, ha gridato, non detto, gridato «illegittimo» l’iter di nomina e di ratifica della Barrett. Semplicemente un gran bugiardo, si sappia. Nell’iter della Barrett non c’è infatti alcunché di illegittimo, proprio nulla. Ma «illegittimo» è lo stesso epiteto che viene usato da quattro anni contro Trump dalla Sinistra che ancora non accetta il verdetto democratico delle urne americane del 2016 e che ancora non ha smesso di violentare il corso della democrazia statunitense. Ha provato, la Sinistra che vaneggia di illegittimità, a colludere Trump con potenze estere e a trascinarlo in tribunale, spingendosi ben oltre il segno, ma a ripensarci scappa piuttosto da ridere. Ha cercato di mettere a soqquadro il Paese, lo ha fatto, lo sta facendo ancora e, nel farlo, ha compiuto misfatti. Il grido di Schumer ha quindi un solo significato: se oggi la Barrett diventerà democraticamente nono giudice della Corte Suprema, la Sinistra cercherà il colpo di mano. E continuano a chiamarsi Democratici.

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