Michelle Bachelet, medico, ex presidente del Cile per due mandati fra il 2006 e il 2013, attuale Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), dal 22 al 28 maggio si è recata in visita ufficiale in Cina. Un visita a lungo attesa e certamente necessaria, tenuto conto del fatto che, prima di questo viaggio, l’ultima occasione in cui un Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha potuto ottenere l’ingresso nel Paese asiatico risaliva al 2005.
Michelle Bachelet durante la sua missione ha potuto «[…] parlare direttamente con i più alti funzionari governativi del Paese e altri interlocutori su questioni chiave in materia di diritti umani, in Cina e nel mondo», ha avuto modo di «[…] incontrare il Consigliere di Stato Wang Yi, il Presidente della Corte Suprema del Popolo, e alti funzionari della pubblica sicurezza, della giustizia, degli affari etnici e delle risorse umane».
«Durante i due giorni trascorsi a Kashgar e Urumqi», continua l’Alto Commissario, «ho incontrato una serie di funzionari, tra cui il Segretario del Partito Comunista Cinese della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang (XUAR), il Governatore e il Vice-Governatore incaricato della pubblica sicurezza. Ho visitato la prigione di Kashgar e la Kashgar Experimental School, un ex Centro di istruzione e formazione professionale (VETC), tra gli altri luoghi».
Sono parole tratte dalla dichiarazione rilasciata da Michelle Bachelet stessa al termine del suo viaggio e che sta sollevando un’ondata di critiche e accuse, fra cui la più benevola è quella di aver confuso il proprio ruolo di difensore dei diritti umani in tutto il mondo con quello più consono a un politico o a un diplomatico.
Ma che cosa si rinfaccia alla Bachelet? Principalmente, di non aver sollevato in alcun modo la questione dei diritti umani in un Paese, come la Cina, in cui i diritti umani sono calpestati e conculcati quotidianamente, da decenni e tuttora. Soprattutto nello Xinjiang che l’Alto Commissario afferma di aver visitato e in cui almeno dal 2017 è in corso un vero e proprio genocidio, che vede vittima la popolazione uigura di religione musulmana, sottoposta a repressione, violenza, detenzione arbitraria, deportazione di bambini e ragazzi, sterilizzazione sistematica della popolazione femminile e aborti forzati.
Il 7 giugno, 39 accademici dall’Europa, dagli Stati Uniti d’America e dall’Australia hanno pubblicato un lettera aperta all’OHCHR, denunciando gli abusi del governo cinese nello Xinjiang e i crimini contro l’umanità che vi si stanno perpetrando e sollecitando l’emissione del rapporto dell’Ufficio dell’Alto Commissario su questo tema, richiesto nel 2018 e a quanto pare completato nel 2021 ma mai diffuso.
«Siamo grati», scrivono gli studiosi, «che l’OHCHR, sotto la direzione di Michelle Bachelet, si sia consultato con alcuni membri della nostra comunità di esperti accademici della Regione prima della sua visita in Cina e nello Xinjiang il mese scorso. Tuttavia, siamo stati profondamente turbati dalla sua dichiarazione ufficiale del 28 maggio, che ha ignorato e persino contraddetto i risultati accademici forniti dai nostri colleghi, inclusi due firmatari di questa lettera».
L’Alto Commissario infatti, nella sua dichiarazione ufficiale, si è dimostrata sorprendentemente “morbida” nell’accondiscendere alla vulgata del Partito Comunista Cinese, che definisce la gestione con pugno di ferro nello Xinjiang come necessaria in funzione di «antiterrorismo» e «deradicalizzazione».
«Le parole dell’Alto Commissario Bachelet», continuano i 39 accademici, «riecheggiano l’affermazione dello Stato cinese secondo cui le atrocità nello Xinjiang fanno tutte parte di uno sforzo di “antiterrorismo”, un’affermazione che la nostra ricerca e gli stessi documenti dello Stato cinese rivelano come falsa. I media statali di Pechino, prevedibilmente, hanno presentato i suoi commenti come una rivendicazione». La dichiarazione rilasciata da Michelle Bachelet, infatti, ben lontana dal richiamare il Paese asiatico alle proprie responsabilità davanti alla comunità internazionale, ottiene il risultato opposto di legittimarne i comportamenti.
«Le informazioni che la nostra professione ha fornito all’OHCHR non sono il risultato del lavoro di uno o due ricercatori. È il consenso unanime dell’intera comunità di studiosi, che sono indipendenti dallo Stato cinese e che hanno dedicato la propria vita allo studio della Regione. Esortiamo l’OHCHR a incorporare pienamente questa conoscenza nel rapporto a lungo ritardato sulle azioni della Cina nello Xinjiang e sollecitiamo l’OHCHR a pubblicare il rapporto senza interferenze politiche o ulteriori ritardi», concludono.
Anche rispetto alla realtà del Tibet e alla repressione delle libertà fondamentali a Hong Kong, la Bachelet ha dimostrato di sottovalutare notevolmente la situazione. Nella prima settimana di giugno, numerose organizzazioni associate alle campagne di advocacy uigure e tibetane hanno chiesto le sue dimissioni, con una dichiarazione in cui affermavano che «la visita fallita dell’Alto Commissario non solo ha aggravato la crisi rispetto ai diritti umani di coloro che vivono sotto il governo cinese, ma ha anche gravemente compromesso l’integrità dell’Ufficio dell’Alto Commissario nella promozione e protezione di tali diritti in tutto il mondo».
Michelle Bachelet ha annunciato che non presenterà la propria candidatura per il secondo mandato alla scadenza dell’incarico attuale, in agosto, adducendo «motivi personali».