La medicalizzazione pervasiva ed eccessiva, che il mondo femminile ha voluto per sé quando ha preteso il ricorso alla “tecnomedicina” per la contraccezione e per ogni «necessità riproduttiva», ha contaminato l’intero processo della nascita. Il rifiuto di ogni gravidanza e la pretesa di un figlio a ogni costo son facce della medesima moneta, che la ricerca in fisiopatologia della riproduzione umana ha ribattezzato “procreatica”, e che ha visto affievolirsi gradualmente la competenza della donna sulla propria natura.
Di conseguenza alcune ostetriche, insieme ad alcune donne combattive, hanno iniziato a guerreggiare a suon di evidenze sia scientifiche sia empiriche, per tentare di far passare il semplice concetto che sì, le donne possono incorrere in pericoli per la salute durante la loro «vita ostetrica», ma rispettando e sostenendo la singola fisiologia, come l’ostetricia dovrebbe proprio fare, appoggiandosi alla medicina personalizzata come fa la naprotecnologia, tali pericoli finiscono per dipendere spesso solo dall’incompetenza e dalla paura di chi le donne le assiste.
La «violenza ostetrica» nel mondo è oramai diffusissima, a causa della visione del tutto lacunosa della nascita come di un semplice mezzo per “far uscire” il bambino, che deve presentare alcune caratteristiche precise, e non come un processo fondamentale che conclude la relazione simbiotica tra una donna e suo figlio, proseguimento di una conoscenza tra i due e inizio, tra l’altro, della maturazione su cui poggia molto della strutturazione psicofisica di ogni essere umano.
Tale approccio sta danneggiando talmente la visione sulla salute femminile, che pare che l’aborto sia un “mezzo salvavita”, per evitare che la donna gravida rischi la salute per un’assistenza ostetrica sbagliata.
La donna, inoltre, a causa dell’eccessiva medicalizzazione e del presupposto che esclude la salute femminile dalla visione fisiologica della propria vita, si pensi alla diffusione della “mentalità anticoncezionale” che ha reso le donne del tutto inconsapevoli della propria profondità e competenza, è stata istruita sul fatto che il figlio concepito sia altro da lei. La donna è stata condotta a ritenere che il bambino sia qualcosa di cui ella possa disporre come vuole e, per tale motivo, liberarsene potrebbe essere il modo migliore per salvaguardare la propria salute. Talvolta e per assurdo, per “garantire” addirittura la salute del figlio fragile: la mentalità dell’aborto come “terapia” ha trasformato la pena capitale sul feto in un gesto di estrema misericordia civile.
A parte la negazione delle evidenze scientifiche sui rischi fisici e psichici che abortire volontariamente produce sulla donna, il diritto all’aborto, che l’Unione Europea ha inserito di recente nella Carta dei diritti fondamentali, ricorda da vicino le prime e molto chiare indicazioni che definiscono la «violenza ostetrica»: «[…] la “violenza ostetrica” produce anche un danno psicologico, i cui effetti a breve, medio e lungo termine influiscono negativamente nella relazione madre-figlio».
E che cos’è l’aborto se non la negazione di questa relazione fondamentale, oltre che la caparbia negazione che il feto non provi dolore? Qual è il presupposto che muove chi sostiene che l’aborto sia la salvaguardia della salute femminile, al pari della contraccezione, che molte donne stanno combattendo proprio perché nega la competenza femminile, se non una completa svalutazione sociale della femminilità e la patologizzazione ulteriore della fisiologia della donna?
L’aborto è annoverato quindi nel concetto estremo di «violenza ostetrica» e, soprattutto, in quella di «violenza di genere», che sono la bandiera di chi afferma che la donna abbia il diritto di abortire, poiché dimostra il controllo che la medicalizzazione e la politica vogliono avere sul corpo delle donne. E perché, inoltre, sopprimendo il diritto a non abortire, come afferma la Legge 194/78, si cancella la salvaguardia di tutti i diritti della maternità che, progressivamente, hanno portato alla denatalità attuale. L’aborto è violenza, violenza sulla donna e sulla massima espressione della sua femminilità: la maternità.
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