Last updated on Luglio 29th, 2021 at 02:20 am
La rivoluzione arcobaleno è un mostro che ha tante teste. Riconoscerne i volti, uno a uno, serve per comprenderne la natura e la portata. In questo quadro, i risvolti economici non sono meno importanti dei risvolti psicologici, educativi, medici o giuridici. La chiave sta nell’aspetto semantico. Attribuire significati nuovi a princìpi consolidati è infatti il vero segreto del successo LGBT+. Sono queste, in sintesi, le conclusioni cui giunge il saggio Il volto amabile dell’orrore di Giovanni Stelli.
Fiumano, classe 1941, docente di Filosofia nei licei, poi professore di Pedagogia nell’Università della Basilicata, Stelli ha curato gli atti del convegno Bioetica e Postumano: si può ancora dire Bioetica?, svoltosi ad Assisi il 15 marzo 2015, fra i quali è incluso il saggio summenzionato.
«Uguaglianza, libertà, autodeterminazione, diritti, pluralismo, compassione» sono i nomi con cui si indicano i valori «quasi unanimemente riconosciuti nelle nostre società occidentali», osserva Stelli. Tuttavia le medesime terminologie vengono utilizzate per una serie di «rivendicazioni volte a modificare non solo il costume corrente, quanto, e principalmente, la legislazione vigente». Ecco, allora che si invocano «uguaglianza» e «diritti» per arrivare al «riconoscimento giuridico dei matrimoni omosessuali» e alla «promozione della cosiddetta maternità surrogata». La parola «compassione», poi, viene usata «per promuovere aborto ed eutanasia».
Dietro un «volto amabile», i nuovi diritti celano cioè orrori conclamati. Leggi annunciate tra squilli di tromba come encomiabili progressi per l’umanità nascondono veri e propri inferni. Non mancano vittime immolate sull’altare del “nuovo bene comune”. Come la diciassettenne indiana, Sushma Pandey, deceduta «a causa della stimolazione ovarica alla quale si era sottoposta per la terza volta in diciotto mesi nella clinica Rotunda Center for Human Reproduction di Mumbai, una struttura d’eccellenza per i traffici legati alla fecondazione in vitro e quindi alla maternità surrogata».
Stelli riporta anche il caso di Nancy Verlhest, 42enne belga, che, dopo essersi sottoposta all’operazione per diventare uomo, «insoddisfatta dei risultati e sentendosi un “mostro”, ricorre all’eutanasia», con il benestare dei medici che ritenevano la sua «una situazione incurabile, con sofferenze [psicologiche] insopportabili».
Per fare in modo che siffatte catastrofi etiche e umane risultino accettabili per l’opinione pubblica, «il male deve presentarsi come bene», come già è avvenuto con le «ideologie nel XX secolo». È questa mistificazione che ha permesso l’avanzata incontrastata dei «propagandisti Lgbt». Un buon sistema per smascherare l’illogicità delle loro tesi è dimostrare che «il significato dei valori proclamati – eguaglianza, libertà, diritti, compassione e così via – è stato profondamente deformato» e che quelle stesse parole non corrispondono più al «significato originario».
Altra mistificazione messa in luce nel saggio: gli ideologi LGBT+ respingono l’accusa di essere “contro la famiglia”, mentre si proclamano a favore delle «famiglie plurali»: famiglie «allargate», «monogenitoriali», «adottive», «affidatarie» e così via. Peccato che, la stessa on. Monica Cirinnà – al momento dell’approvazione della legge sulle unioni civili che porta il suo nome –, in un sussulto di onestà intellettuale, ammise che si trattava di «un passo iniziale verso lo scardinamento, che già esiste nella nostra società, rispetto alla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna». Pertanto, commenta Stelli, «è abbastanza chiaro che, se ogni relazione è famiglia, nessuna relazione è più veramente famiglia».
Ecco, allora, un ulteriore risvolto della rivoluzione arcobaleno: la dissoluzione della «famiglia tradizionale» (o, per meglio dire, «semplicemente la famiglia») è «funzionale alla mercificazione» di ogni aspetto della vita umana. Distrutta la famiglia come luogo privilegiato della «relazione stabile primaria disinteressata», le persone sono ridotte ad «atomi di consumo, a individui concentrati sul soddisfacimento dei propri desideri e capaci, perciò, di intrecciare solo relazioni provvisorie, mutevoli e fungibili».
Chi ha teorizzato (e in parte anche messo in pratica) tale piano utopistico è l’economista francese Jacques Attali parlando di «poliamore» e di «multigenitorialità generalizzata», e auspicando un mondo in cui «l’indissolubilità della famiglia monogamica verrà denunciata come un anacronismo e un lascito della società feudale». Attraverso il «predominio incontrastato del desiderio», la «piena libertà sessuale» e la «mercificazione globale alimentata da uno sviluppo tecnico illimitato», sostiene Attali, si giungerà trionfanti a un «mondo straordinario in cui tutti potranno essere felici».
Nel paragrafo dedicato alla «neolingua», infine, Stelli offre uno spunto di riflessione molto attuale, offrendo un’ottima chiave di lettura per il «testo unico Zan». Già nel documento Strategia Nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, emanato dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) nel 2012, si individua la “strada maestra” per il soffocamento della libertà d’espressione. Ai giornalisti viene infatti consigliato di scrivere «famiglia omogenitoriale» in luogo del più tranchant «famiglia omosessuale»; «gestazione di sostegno» o «maternità surrogata» al posto di «utero in affitto»; «famiglie» invece di «famiglia».
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