Negli Stati Uniti d’America molte cliniche per l’aborto stanno chiudendo, ma c’è chi ne è terribilmente preoccupato. Accade nel Maryland, dove una deputata Democratica nell’assemblea legislativa dello Stato, Ariana Kelly, si lamenta del fenomeno, accompagnato peraltro da una forte crescita demografica, denunciando all’agenzia Associated Press quella che secondo lei starebbe la «direzione sbagliata» assunta dai Repubblicani che governano il Maryland.
La Kelly ha ibnfatti appena presentato un disegno di legge che permetterebbe di estendere a qualunque medico, infermiere od ostetrico la possibilità di praticare aborti. La legge attualmente in vigore nel Maryland lo consente invece soltanto a un limitato numero di medici autorizzati e la deputata lamenta che per di più le strutture per l’aborto siano, nel Maryland, diminuite di otto unità in trent’anni: nel 1992 erano 52, oggi sono 44.
«Si tratta di un calo del 15% nel numero di fornitori, mentre, allo stesso tempo, si assiste a un aumento del 28% della popolazione: stiamo quindi chiaramente andati nella direzione sbagliata», sostiene la Kelly, senza però specificare se il “danno” derivi dal numero di bambini che avrebbero dovuto essere abortiti oppure dalle strutture preposte a farlo, che non hanno tenuto il passo con la domanda di aborto.
Il 90% dei medici è obiettore
Lo Stato del Maryland non richiede che le strutture tengano il conto degli aborti praticati, ma le organizzazioni pro life stimano in quasi 30mila il numero bambini uccisi.
L’aborto del resto non è un servizio di assistenza sanitaria, come invece afferma la Kelly, e decine di migliaia di medici statunitensi lo confermano. Lo scopo di un aborto è solo quello uccidere un bambino nel grembo materno, non quello di guarire o di salvare. L’«Alliance for Hippocratic Medicine» riporta del resto che oltre il 90% dei ginecologi si rifiuta di praticare l’aborto.
Non più “per la scelta”: è proprio sete di morte
Le affermazioni della Kelly sembrerebbero sottintendere che esista una domanda insoddisfatta di aborti, ma anche su questo punto permangono molti dubbi. Da un lato la popolazione del Maryland è infatti negli ultimi tre decenni cresciuta, dall’altro i tassi di natalità e di gravidanza tra le adolescenti sono diminuiti, e scende anche il numero di giovani che si sposano e che hanno figli. Quindi, anche se gli aborti equivalessero davvero a un «bisogno di assistenza sanitaria», sempre meno donne sembrano evidenziare questo bisogno.
Le strutture per l’aborto sono poi essenzialmente aziende che fanno affidamento sulla domanda. Quindi, quando strutture del genere chiudono in Stati come il Maryland, dove la legislazione per l’aborto è abbastanza permissiva, spesso è perché le donne semplicemente non vogliono abortire.
Qualunque cosa la deputata Democratica dunque intendesse, il suo pensiero è sintomo di un cambiamento radicale tra gli attivisti e tra gli uomini politici favorevoli all’aborto. Molti stanno abbandonando l’etichetta «pro choice», preferendo definirsi senza eufemismi «per l’aborto». E rifiutano l’adagio, così popolare fino a poco tempo fa, secondo cui gli aborti dovrebbero essere «sicuri, legali e rari».
L’enfasi non è più insomma sulla prevenzione dell’aborto, bensì sulla sua implementazione. Come se 63,5 milioni di bambini abortiti dal 1973 non bastassero.
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